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Omaggino ai nostri Strigoi. http://www.valmneira.com/forum/viewtopic.php?f=54&t=15847 |
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Autore: | Hoijemondijs [ ven feb 11, 2011 12:21 ] |
Oggetto del messaggio: | Omaggino ai nostri Strigoi. |
Torno tra voi e vi faccio un piccolo -insomma, è una cosa lunghina- omaggio. La traduzione (molto libera) dal romeno del poemetto "Strigoii" di M. Eminescu. I vampiri - -I- Perché passa via come il fumo, la vita terrena Come fiore fiorisce e come erba è recisa E chi è avvolto in fasce poi è coperto dalla terra Sotto le alte volte d’una vecchia chiesa Tra le fiamme dei ceri negli alti candelabri Giace in vesti bianche, rivolta all’altare La sposa di Arald, degli Avari il Re Lenti, profondi echeggiano gli inni dei preti Sul suo petto risplende una collana preziosa E la sua chioma d’oro scivola fino a terra Gli occhi sono infossati. Un triste, pio sorriso È sulle labbra sue, serrate e violacee E il bel volto suo è bianco come un cencio. Accanto a lei, in ginocchio, è Arald il fiero Brilla disperazione negli occhi suoi rossi Le nere chiome sfatte, si chiude la bocca Ruggirebbe di dolore, ma ahi, pianger non può. Da tre giorni rammenta la sua favola breve. “Ero solo un bambino. Per la taiga vagavo I miei occhi fiammanti divoravan la terra In sogno disperdevo le genti e gli imperi Sognavo che il mondo pendesse dalle mie labbra E menavo fendenti contro l’onde del Volga. Poi, giovane e zelante, dominai schiere infinite Per loro il mio sembiante era quello d’un Dio Sentivo l’universo al mio passo tremare E i popoli vaganti, che i miei prodi scacciarono, Han riempito nel terrore le steppe, fino al polo. Odino è ormai fuggito dal palazzo di ghiaccio Per vie di pianto e sangue si mosser le sue genti; Preti dal capo candido, dalle chiome intrecciate Han condotto attraverso eterni boschi silenti Mille popoli e lingue, fin all’antica Roma. Mi accampai sul Nistro per scacciar la tua gente; Tu mi venisti incontro con gli anziani consiglieri Bianca eri come il marmo, e oro fluido la chioma, Di fronte al viso tuo io lo sguardo abbassai E mi sentii un bambino viziato e timoroso. Alla dolce visione mi si secca la gola Io cerco di rispondere e rispondere non so; Non avrei mai pensato di vergognarmi, in vita E il viso nelle mani allora io nascondo E per la prima volta io piango amaramente. Sorrisero tra loro i tuoi anziani amici E soli ci lasciarono... più tardi io chiesi Guardando dritto a te, contemplandoti ignaro: “Perché vieni regina, quaggiù nella steppa? Cosa può darti un barbaro, dentro la sua capanna?” Con la voce commossa, tristissima e calda Guardandomi con occhi ove splendevan stelle Dicesti “Io questo chiedo, al mio re e cavaliere: Che mi offra un ostaggio, e umilmente lo chiedo, voglio avere un bimbo viziato, voglio Arald”. Distolsi allora il viso, e la spada ti donai, La mia gente si fermò presso il Danubio, Arald, il re fanciullo, rinunciò al mondo intero E volle udire solo da te canti e poesie, Da allora, trionfatrice, lo sconfitto tu hai amato. Da allora, o fanciulla bionda siccome il grano Venisti ogni notte da me di nascosto E stringendomi al collo le braccia di neve Mi offrivi la bocca, pronta alla battaglia, “Vengo da te, mio re, e ti chiedo il mio Arald”. Se tu avessi chiesto il mondo e Roma antica Le corone che i re ancora avean in fronte E le stelle che da sempre fan carole pei cieli Tutto quanto avrei messo in un cesto ai tuoi piedi, Ma tu Arald volevi da me, e nient’altro. Ah dov’è il tempo in cui mi facevo strada Verso il vasto mondo?... sarebbe stato meglio Che mai in vita mia io ti avessi veduta, Delle città vedrei le rovine incendiate, e sognerei soltanto le vaste abetaie”. Le fiaccole sollevano, e camminano piano portando in spalla il corpo della loro regina, i monaci esperti delle terrene sorti Hanno la barba bianca, gli occhi ormai spenti Preti vecchi come il verno, con le voci tremanti. La portan per le cripte, sotto le nere volte Cantando le litanie lor mistiche ed oscure Calan con lunghe funi la bara sotto il suolo E sopra la lapide una croce per sigillo, e una candela che arde nell’angolo, in ombra. II Nel nome del cielo, taci, senti che latra un mastino, sotto terra sotto la croce di pietra Vola il nero destriero, fuggono monti e valli Come sogni d’intorno, giocano nubi e luna. Drappeggia il nero manto Arald sul petto suo Mucchi di fronde dissipa veloce il suo passaggio E la stella polare guida il suo cammino. Tra monti antichi è giunto, al confine del bosco, Mormorano i ruscelli, saltan di pietra in pietra Tutto grigio di cenere v’è un focolare spento, Nel profondo del bosco latra il mastino abissale E la voce possente risuona nelle orecchie. Sopra un seggio di pietra sta immobile e cinereo Con il suo scettro in mano un chierico pagano Siede così da sempre, la morte lo ha obliato. Per le chiome e sul petto il muschio gli cresce La barba arriva al suolo, le sopracciglia al petto. Da secoli di notte e di giorno vede tenebra Il cieco, e i suoi piedi son fusi con la pietra, egli conta in cuor suo giorni interminabili Volano sul suo capo, disegnando ampi cerchi Con le ali spiegate un corvo bianco e uno nero. Arald discende allora dal destriero e scrollando Con la mano risveglia l’immobile vegliardo. “Mago eterno e longevo, da te son venuto Ridammi colei che la morte m’ha tolto, e sarà la mia vita ai tuoi dei consacrata!” Il vecchio le ciglia si scosta con lo scettro E fissa a lungo Arald, ma la bocca tien chiusa. Con gran pena egli libera i piedi dal sasso Si solleva dal trono, con la mano gli mostra La via da seguire, che pei boschi s’inerpica. Su un portale in rovina, che va al cuore del monte Con il suo vecchio scettro egli batte tre volte Con strepito si muove la porta sui vecchi cardini Il vecchio s’inchina, il re rabbrividisce Uno stuolo di tristi pensier gli passa in mente. In un palazzo nero di marmo entrano quieti Le porte dietro loro stridono sui vecchi cardini. Accende il vecchio un lume, la lunga fiamma S’innalza i su azzurra, una lama di luce Splendono intorno i muri, lustri come il giaietto. In quel crudo silenzio non sanno cosa li attenda. Con la mano tesa il mago a sedersi lo invita, Araldo, la morte in cuore, preda dei suoi pensieri Silente si abbandona, nella destra ha la spada Crudele guarda fisso il muro di giaietto. In modo sorprendente sembra crescer l’anziano Bianco leva in alto la verga, tra gli incanti Un freddo refolo per la reggia dilaga E mille voci fioche sotto le ampie volte Intonano un dolce canto, che ipnotico risuona. Il canto man mano, in nuove onde aumenta E sembra che un fortunale innalzi il suo grido, Che un vento spaventoso scuota il mare in tempesta Che lo spirito della terra si tormenti nella sventura E che ogni cosa viva debba adesso morire. Trema tutta la reggia, quasi fosse una capanna Minaccia di cadere le pietre una sull’altra E pianti strazianti, conditi da bestemmie Per le volte si inseguono, richiami, tuoni, gemiti E crescono tumultuosi in ondate, mille a mille… “Dal cuore della terra abbia vita chi è morta Negli occhi le scorrano scintille di stella Nella chioma le splenda la luce del plenilunio Ma dalle tu lo spirito, Zamolxis, fonte di luce Col soffio della tua bocca, che è fuoco e ghiaccio. O voi, quattro elementi, Arald v’ha soggiogato Rovesciate la terra fino nelle sue viscere, rendete oro la pietra, dal ghiaccio create fiamme si faccia l’acqua sangue, dalle pietre sorga il fioco affinché la sua amata abbia sangue nel cuore.” Allora innanzi ad Arald crollano le mura Vede la natura là fuori, sconvolta. La neve e il lampo, il ghiaccio e il vento dell’estate Lontano vede l’urbe, sotto un arco di fiamma E la gente impazzita che geme con gran forza. Il tempo cristiano, con tutta l’iconostasi Un fulmine spezza in due e fa tremare Nella cripta il sarcofago allora gli appare La pietra che lo chiude si spezza in due E lenta si solleva la sposa sua, un fantasma… Dolce è il sembiante niveo, sul petto ha la collana Di pietre rare, la chioma le sfiora i calcagni Gli occhi sono infossati, le labbra violacee Con le mani di cera si massaggia le tempie Ed il bel volto suo è bianco come un cencio. Viene tra venti e nebbia, e le nubi si addensano. I fulmini la fuggono, lasciano che ella passi La luna si fa nera, e tramonta ogni stella E le acque spaventate fuggon dal suolo arso Sembrava fosse un angelo all’inferno disceso. Passa via la visione, si ferma innanzi al muro Viene in folle estasi, avanza silente La fissa folle Arald, con gli occhi la divora, le braccia sue possenti verso di lei protende e senza che lui si accorga la spada a terra crolla. Sente alla gola un gelido abbraccio Sul petto nudo un lungo bacio di ghiaccio, una stoccata che gli toglie vita e fiato... Lei è sempre più viva, nelle braccia sue E sa che ora sarà sua in eterno. Il dolce suo respiro si fa tiepido È tornata sua, colei che morte ha rapito? Gli stringe al collo le braccia di neve Gli offre la bocca, pronta alla battaglia “Maria viene da te, o re, e chiede il suo Arald”. “Arald non vuoi posarmi il capo in seno? Sei un Dio dagli occhi neri... ah, così belli! Lascia che ti avvolga nella mia bionda chioma La vita, la giovinezza con te son paradiso Lasciati guardare nei dolci occhi assassini.” Le fioche, tristi voci cessano d’ululare Ora si sente solo una canzone antica Come il fruscio dei torrenti tra le fronde Ora è armonia di voluttà, d’amore Lieve come il ritmo delle onde d’un lago -III- “ si dice che spesso, quando gli uomini muoiono Molti di loro si levino dalla tomba Per farsi vampiri” “L’Amministrazione delle leggi”, Târgovişte, 1652 Nelle sale deserte rosse luci di torce Straziano la tenebra come carboni ardenti Arald da solo vaga, ride, parla furioso Arald, giovane re, è un rege solitario Il suo palazzo, il parco, ricevono solo spettri. I neri specchi celano veli di lana nera smorza la tela fine Il bagliore delle torce Si rifrange di specchio in specchio una luce dolente Tutto il vasto edificio è vuoto, desolato Il volto della morte sembra apparire ovunque. Un giorno cadde un fulmine sul palazzo e da allora Dorme come un sasso, dorme per tutto il giorno Il re e sul suo cuore ha come una macchia nera Ma la notte si sveglia e allora tiene corte E di nero ammanta ogni cosa, il pallido signore. Sembrerebbe portare una maschera di cera da quanto è imperturbabile e bianca la sua faccia, gli occhi ardono gelidi, la bocca è insanguinata sul cuore da tempo ha come una macchia nera e sulla fronte porta una corona d’acciaio. Da tempo come morte conduce la sua vita Gli piacciono i canti cupi, come voce di tuono Spesso esce a cavallo nelle notti di luna Quando ritorna gli occhi risplendono benevoli Ma poi ogni mattina sente la morte in cuore. Arald, cosa vuol dire questa tua veste nera? Cos’è questo tuo volto di immutabile cera? Perché tu porti come un’ombra nera in seno? Perché le faci funebri, il tenebroso canto? Arald, se non s’inganna il mio senno, sei morto! Anche oggi egli corre sul suo cavallo arabo E s’incammina dritto verso la steppa Che sotto la luna piena splende d’argento. Ei vede di lontano la bella sua Maria E il vento nei boschi canta piano, con duolo. Nei capelli suoi d’oro ha ardenti rubini E negli occhi una luce infinita e sacra Si raggiungono di corsa, avvicinano i cavalli E si abbandonano l’uno ai baci dell’altra E le loro bocche rosse sembrano insanguinate. Corrono come il vento che ha mille e mille ali E i cavalli affiancati sfrecciano schiumando, parlano dell’amore loro che mai si cheta. Lei è abbandonata dolcemente sul suo braccio E gli ha appoggiato il biondo suo capo sulla spalla “Arald non vuoi posarmi il capo in seno? Sei un Dio dagli occhi neri... ah, così belli! Lascia che io ti avvolga nella mia bionda chioma La vita, la giovinezza con te son paradiso Lasciati guardare nei dolci occhi assassini.” Profumi dolci e ipnotici impregnano l’aria Nel vento è una bufera di fiori di tiglio Che infiorano il cammino della bella regina. Tra le fronde si annidano soavi sospiri, quando le bocche placano la sete di baci. Mentre sfrecciano insieme, nell’amorosa lotta, Non vedono alla fine della notte un’ombra rosa Sentono solo un brivido passare nell’anima Un colore terreo, morto, si palesa sul volto, e il loro eloquio sentono farsi sempre più fiacco. “Arald! – grida la regina- proteggimi il volto! Non hai udito il grido lontano di un gallo? Un bagliore di luce si palesa ad oriente Che la fragile vita mi strappa dal petto Mi trapassano il cuore i raggi rossi del giorno!” Arald sul cavallo si fa rigido come un tronco Ha gli occhi annebbiati, la morte lo chiama Fuggono i cavalli impauriti, portati dal vento Come le anime dannate uscite dall’inferno Essi volano... geme il vento dolente tra i boschi. Volano in un turbine, sulla terra e sull’acqua I possenti e antichi monti sono di fronte a loro Passano in fretta sopra i torrenti impervi Le loro corone nel turbine mandan saette Dinnanzi a loro fremono le antiche pinete. Dal suo trono di pietra il vegliardo li vede Egli innalza nel vento la voce profonda E richiama la notte, perché essa fermi il sole Volano le tempeste che scuotono la terra... E’ tardi! Il chiaro giorno avanza nella sua gloria. Dal turbine si leva un canto di dolore Mentre i due, affiancati, immobili cavalcano Con le ciglia abbassate sugli occhi ormai spenti. Eran comunque belli, dalla morte uniti. Entrambi i suoi battenti il portale sacro aprì I cavalieri entrarono e si chiusero le porte Per sempre essi sparirono nel cupo mausoleo. Da allora s’ode un peana, che nel cuore ferisce Che piange una regina con un pio, dolce viso E Arald il re bambino delle antiche abetaie. Il vecchio chiude gli occhi, ora è del tutto cieco I decrepiti piedi si fondon con la pietra, egli conta in cuor suo e rammenta i suoi anni, la storia di Arald gli sembra una vecchia fiaba, Sopra di lui volteggiano un corvo bianco, uno nero. Sopra il trono di pietra s’irrigidisce tutto, con il suo scettro antico il chierico pagano. Per i prossimi secoli sarà dimenticato Sulle trecce avrà muschio e muschio sul cuore barba lunga fino a terra, ciglia lunghe fino al petto. Alcune note. Il titolo potrebbe essere tradotto anche come "Gli spettri". Il "mastino che latra sotto terra", è il "Căţelul pământului.", il cane della terra, una creatura demoniaca che ama vagare sotto terra, presso i cimiteri, e si nutre dei cadaveri sepolti senza gli onori cristiani. Zamolxis, o Zalmoxis è la principale divinità dei Daci, il fondatore del popolo, della cultura e della religione di tale antica popolazione. Erodoto dice che fosse un mortale, forse un allievo di Pitagora. fu proclamato un dio dopo che sopravvisse a tre anni di autoesilio in una profonda caverna (la grotta di marmo nero descritta nel poema). La versione originale, con il mio testo a fronte, è qui. http://issuu.com/ljudoedka/docs/strigvamp |
Autore: | DoMiNaTrIcE_SiNiStRi [ ven feb 11, 2011 20:34 ] |
Oggetto del messaggio: | Re: Omaggino ai nostri Strigoi. |
non so... ma a me sembra incredibilmente dolce... in alcune parti... è davvero intrigante... e davvero accattivante devo dire... |
Autore: | caronte [ ven feb 11, 2011 20:58 ] |
Oggetto del messaggio: | Re: Omaggino ai nostri Strigoi. |
lunghetta direi, ma è un vero piacere leggerla! davvero bella! |
Autore: | rose [ lun feb 14, 2011 11:23 ] |
Oggetto del messaggio: | Re: Omaggino ai nostri Strigoi. |
La mia ammirazione per Hoijemondijs continua a crescere in modo esponenziale! Senza considerare che Eminescu è una lettura piuttosto frequente in casa mia... grandissima citazione |
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