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 Oggetto del messaggio: Racconto Gotico - Inspiration
MessaggioInviato: mer lug 20, 2005 23:23 
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Iscritto il: dom lug 17, 2005 23:02
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Località: I Nove Inferi di Baator
Purtroppo non ho potuto usare questa mia storia per partecipare al concorso di lettere gotiche (troppo lunga... e comunque 50 righe sono una castrazione immane per qualsiasi scrittore...).

Ad ogni modo, posto qui la mia opera e spero che verrà letta e apprezzata dagli utenti del forum, nonostante non vi compaiano né vampiri né drow.

Inspiration
Ad opera Azrael the Dark

Vi è forse qualcosa di più importante della creatività, per un poeta? Esiste per un musico qualcosa di più agognato dell’abbraccio delle Muse? E come può uno romanziere completare la sua opera, se non ha una storia da narrare?
Nulla è più importante, per coloro che esercitano le arti, dell’ispirazione: essa è per loro sia benedizione di un momento che anatema di tutta una vita.
Pensate. Riflettete su queste parole. Se la divina Mneme mi concederà la grazia del suo sostegno, io aiuterò i vostri pensieri con un racconto. E’ la terribile storia di un poeta che perse il favore delle Muse e, con esso, la sua stessa vita. Ascoltate, fate tesoro di ciò che state per udire, poiché questa storia potrebbe rivelarsi per voi più preziosa del pomo delle Esperidi. Ascoltate…

Il celebre poeta Jacques de Tourduchamp stava chino, aggobbito sgraziatamente sulla sua pregiata scrivania d’ebano, con in mano la sua stilografica nera. Il foglio che stava guardando ossessivamente era bianco, escluse numerose macchie d’inchiostro simili a ragni neri ed orribili. Da quanto tempo era che stava cercando di scrivere quella poesia, nemmeno lui se lo ricordava più. Ore? Giorni? Anni forse? Il tempo non aveva più significato per lui, e d’altronde chi se ne importava? Lui era il famoso Jacques de Tourduchamp, il decadente, l’arlecchino triste. A nessuno sarebbe importato il tempo di composizione della sua nuova opera… Esattamente come a nessuno sarebbe importato della sua morte.
Da quanto tempo quegli occhi arrossati non vedevano la luce del sole? Da molto tempo fa a questa parte, l’unica luce che essi potevano rimirare era il fioco barlume delle due candele che illuminavano flebilmente il suo cupo studio. Dopo aver condotto per anni una vita dai ritmi stravolti, Jacques si era ridotto ad essere un pallido e gracile essere notturno, a cui bastava la sola visione del sole, di quel sole così intenso e bruciante, per abbagliarlo, stordirlo, accecarlo. Ogni volta che provava ad uscire di giorno doveva portarsi una mano sugli occhi per non sentire quel dolore bruciargli la vista, o almeno per attenuarlo.
A Jacques non importava nemmeno questo. Nulla aveva più senso per lui, nemmeno la sfrenata vita notturna ed i piaceri a cui abitualmente si concedeva nella declinante Paris, la città dei sogni quanto degli inganni. Ogni cosa aveva perso un senso da quando lui aveva smesso di scrivere. Non poteva nemmeno ricordarsi il momento esatto in cui l’ispirazione l’aveva abbandonato, e chi sa forse se c’era mai stato uno? Poteva ormai pensare che forse lui non l’aveva mai avuta, quell’ispirazione tanto bramata dagli artisti. Tutti i suoi lavori precedenti, non importa quanto apprezzati dagli intellettuali e dai filosofi dell’arcana Paris, ai suoi occhi facevano schifo, esattamente come tutto il resto. I suoi precedenti lavori gli avevano fatto guadagnare la notorietà ed il denaro di cui aveva bisogno, ma Jacques aveva scoperto ben presto che non era questo ciò che desiderava. Lui voleva qualcosa di più: creare una vera poesia, un’opera unica, che parlasse di ciò che egli provava, che parlasse di una felicità mai avuta e di una morte mai compianta. Voleva creare qualcosa che potesse esprimere tutte le sue sensazioni, i suoi sentimenti, senza avere paura di ciò che avrebbe detto la gente perché era sicuro, oh se ne era sicuro, che la gente avrebbe capito, avrebbe compreso.
Ma non ci riusciva. Mesi di impegno non erano serviti a nulla e quel foglio bianco continuava a fissarlo, come per accusarlo di un reato che Jacques non aveva commesso. Non ancora, almeno.
Il poeta spostò la sedia, si alzò in piedi, guardò ancora con insistenza il foglio bianco ed infine si voltò lentamente verso il grande specchio del suo studio. Era un grande specchio, con una cornice molto antica e pregiata che probabilmente aveva una storia, anche se Jacques de Tourduchamp non la conosceva. Ma non fu la cornice in quel momento a catturare la sua attenzione: alla luce della candela vide una creatura orribile, quasi deforme, aldilà dello specchio. Aveva i capelli bianchi ed appiccicaticci, il volto era tremendamente incavato e sembrava così esile e curvo in quel vestito nero e dorato. Sembrava quasi che l’uomo si sarebbe spezzato in due da un momento all’altro. D’istinto Jacques indietreggiò, spaventato dalla vista di quell’essere. Ma quando anche la figura indietreggiò, nella sua stessa posizione e nello stesso momento, egli comprese. Si avvicinò allo specchio, osservando disgustato ciò che era diventato. Nella realtà Jacques non era un uomo brutto, anzi era alquanto attraente per i membri dell’altro sesso, ma le fioche luci delle due candele contribuivano a creare un crudele gioco di ombre per cui, forse anche a causa di una sua pazzia, l’uomo si vide come un mostro orrendo.
Un istante dopo Jacques de Tourduchamp gridò.
Urlò con tutta la forza che aveva in corpo maledizioni contro Dio e contro il Diavolo per ciò che era diventato, condannò i Cieli ed il Creato per averlo ridotto in quel misero stato di prostrazione in cui versava il suo corpo. Tutto ciò era avvenuto per scrivere una poesia.
Il cielo notturno, in risposta a quelle atroci bestemmie, vomitò tuoni, fulmini e scroscianti piogge su di lui, sulla sua casa e forse persino sulla Francia intera e sul mondo.
L’uomo venne intimorito da quella manifestazione naturale, ma non placò la sua ira. Chiese sottovoce, delirante, di riavere l’ispirazione perduta ad altri Dei, divinità di epoche passate, i culti pagani su cui si basava la sua elevatissima istruzione.
-Melete, Aoide, Mneme, mie Dee, mie Signore, divine Muse suscitatrici di emozioni, vi prego, concedete a questo mortale di portare a termine la sua opera più eccelsa! Datemi l’ingegno necessario a portare a termine questa mia suprema poesia! In cambio farò qualunque cosa! Qualunque cosa!-
Il pazzo finì gridando il suo delirio, suscitando dell’altro terribile echeggiare di tuoni fuori dalla sua casa. Jacques ebbe paura, ma non scese nessun angelo vendicatore a punirlo per la sua blasfemia. Ansante e febbricitante, cercò di alzarsi dritto in piedi ma un tremolio convulso glielo impediva. Iniziò a spostarsi malamente verso la porta, quando vide qualcosa che lo lasciò atterrito. La sua fidata stilografica nera si era lentamente mossa. Da sola. Il poeta si avvicinò lentamente e con stupore, quando ad un certo punto si fermò a riflettere per un secondo. Iniziò a convincersi, forse non del tutto errando, di essere pazzo. Ma questa volta la visione si ripeté, più chiara di prima. La penna si alzò lentamente da sola e si spostò sopra il foglio.
Jacques si avvicinò, esitante ma al tempo stesso stregato da quell’evento.
La penna si avvicinò, come se qualcuno la stesse reggendo, al foglio. Iniziò a scrivere una parola, lì dove avrebbe dovuto esserci il titolo della poesia, e Jacques la comprese prima ancora che la stilografica ebbe finito quell’oscuro gesto.
-Requiem…- pronunciò con un filo di voce.
Istintivamente afferrò la penna con uno scatto. Parole su parole gli affollavano la mente, la occupavano e non lasciavano spazio a nessun altro pensiero. Jacques iniziò a scrivere forsennatamente, come per liberarsi di quelle rime occulte e di quel senso di oppressione che l’attanagliava. Man mano che scriveva, il suo componimento gli appariva sempre più chiaro, sempre più completo. Un largo ghigno di soddisfazione affiorò lentamente sul suo volto infossato, mentre la sua mano continuava a scrivere a ritmo incalzante lettera per lettera, parola per parola. Continuò così per alcuni lunghissimi minuti, poi finalmente si fermò. Affrettatamente cominciò a rileggere quanto aveva appena scritto, rendendosi conto di aver appena compiuto l’opera della sua vita. La lesse e la rilesse più volte, quella poesia che tanto l’aveva fatto piangere, disperare, dannare. Mentre la rivedeva si sentiva sempre più felice e soddisfatto per ciò che aveva compiuto. L’obiettivo ultimo della sua vita era lì, davanti ai suoi occhi. Il migliore componimento che egli avesse mai scritto, senza dubbio. Parlava d’orrore, di morte, di devastazione, certo. Ma c’era anche una nota di speranza, la speranza di quell’amore che Jacques non aveva mai provato e che l’aveva devastato interiormente. Era proprio così che voleva fosse la sua poesia, in grado di suscitare l’orrore e perché no il disgusto, ma anche di sollevare l’animo umano a vette superiori.
Fu in quel momento di somma felicità e soddisfazione che Jacques percepì qualcosa che non andava nel suo studio. Si girò inquieto e si diresse verso la finestra per controllare se il temporale al di fuori fosse finito. Tirò nervosamente la tenda, ma all’esterno non riuscì a vedere nulla se non l’oscurità. Nel suo studio era calato un freddo silenzio di tomba. Jacques non riusciva nemmeno ad udire i proprio passi. Si voltò di scatto per esaminare la stanza. Il pesante portone di legno era ancora saldamente chiuso con due pesanti chiavistelli di legno, che il poeta aveva fatto installare per non essere infastidito mentre era al lavoro. Non era di certo entrato nessuno, ma nella stanza riusciva ancora a percepire una presenza estranea… e disumana.
Controllò con un’occhiata snervata che fosse tutto in ordine. I libri erano tutti al loro posto, nei loro pesanti scaffali di noce… Ma c’era ancora qualcosa che non andava nel suo studio. Jacques sentì per un istante un fortissimo, primordiale impulso che lo spingeva a fuggire, ma lo ricacciò indietro con forza. Non c’era nessuna stanza nella sua casa più sicura del suo rifugio. Nessuna. Quindi la cosa più saggia sarebbe stata aspettare il giorno chiuso nel suo studio, a rimirare il suo componimento… Si, avrebbe fatto proprio così…
Un’orribile presentimento lo distolse da quei pensieri. Guardò dritto nello specchio, dove doveva esserci il suo riflesso. Non riuscì a capacitarsi di quello che vide. Un fanciullo dai capelli neri lo stava fissando dall’altra parte dello specchio. Aveva in mano una fiaccola nera, spenta e rivolta verso il basso. Jacques balzò indietro, spaventato da quella visione. Il fanciullo fece per avvicinarsi, e tese in avanti un braccio. Il poeta notò che il fanciullo aveva le mani grondanti di sangue.
Inorridito, si appiattì contro la sua biblioteca, non potendo scappare da nessuna parte. Il bambino continuò ad avvicinarsi sino a toccare l’altro lato dello specchio. Poi i suoi occhi brillarono di un bagliore rosso come il sangue, e l’istante dopo il vetro si frantumò in una miriade di pezzi.
Jacques si accovacciò, spaventato da quell’atroce dimostrazione di potere. Ora lo specchio non esisteva più, ed il bambino stava in piedi dinnanzi a lui, quasi sovrastando la sua figura inginocchiata.
Jacques trovò da qualche parte la forza di chiedere: -C…Chi… Chi sei tu?-
Ma se ne pentì immediatamente, quando sentì il bambino rispondergli.
-Io sono Thanatos.- disse. La sua voce riecheggiava, non come quella di un bambino bensì come quella di un vecchio che stesse parlando da molto, molto lontano. Ma non era debole, era una voce imponente ed ancestrale, che pareva avvezza a pronunciare lingue molto più oscure del francese.
Il fanciullo continuò: -Io sono il figlio di Nyx ed il fratello di Hypnos. Sono venuto dall’Ade per riscuotere il debito che ti lega alle Muse.-
-Di… Di quale debito st… stai parlando?- chiese Jacques.
Il volto del bambino s’increspò in una smorfia di disgusto.
-Hai pronunciato le parole, mortale. Avresti fatto qualunque cosa per ricambiare l’ispirazione. Ebbene, esse te l’hanno concessa, non negarlo o te ne pentirai! Il prezzo da pagare per questo sommo dono è già stato deciso…- dichiarò con la sua voce ultraterrena Thanatos.
Il poeta aveva capito, ma non voleva credere una cosa del genere. Non poteva farlo. Non gli importava niente dell’esistenza o meno di un Dio, ma non avrebbe mai creduto all’esistenza di più Dei, divinità che per giunta non venivano più venerate da millenni… Si sarebbe definito cento volte pazzo, pur di non credere ai suoi occhi.
Ma il fanciullo era lì, davanti a lui, ed era reale. Non era una visione instillata dai veleni di cui Jacques faceva uso. Come se gli avesse letto nel pensiero, Thanatos allargò di scatto le braccia e dalla schiena gli fuoriuscirono improvvisamente un paio di oscure ali piumate. La sua torcia iniziò a mutare forma e dimensione, oscillando tra il nostro mondo ed una realtà fatta solo d’ombra, di pura oscurità. Dopo qualche istante, che sembrò però quasi eterno, la fiaccola assunse la forma di un’enorme spada creata dalle ombre stesse. Il fanciullo protese la spada verso il petto di Jacques, pronto ad esigere il pagamento finale.
-Non farlo!- lo implorò Jacques, un istante prima di morire.
L’oscura spada lo trafisse nel cuore, senza però trapassare la sua forma fisica: essa lo dilaniò nell’anima, causandogli atroci sofferenze prima della distruzione finale. Compiuta la sua missione, il fanciullo scomparve da quella stanza meschina.
Il mattino dopo Jacques de Tourduchamp venne ritrovato morto da una domestica. Il suo cuore aveva smesso di battere improvvisamente, senza nessuna spiegazione plausibile. Il medico che venne chiamato ad accertarsi della causa della morte, trovandosi sinceramente imbarazzato, attribuì il decesso ad un’overdose delle droghe di cui Tourduchamp faceva un uso smodato. L’unico possibile indizio, quella poesia che aveva fatto dannare l’anima del suo autore, scomparve la notte dopo in un incendiò che distrusse completamente la villa di Jacques de Tourduchamp.
E forse è un bene sapere che quell’amara poesia, scritta col sangue del suo autore, non venne più ritrovata.


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