Nuovo capitolo dei "Racconti Onirici".
Aggettivo più adeguato non c'è, dal momento che si tratta della rielaborazione di un sogno fatto qualche tempo fa.
Finale un po' macabro, ma perfetto come contraltare alla leggerezza della parte iniziale.
Fatemi sapere
La luce negli occhi.Ad eccezione della fatica, percepisco tutto.
L’aria fresca della luminosa giornata primaverile rende lieta la salita.
La strada sterrata mi porta, lanciata come un trampolino nel verde dei prati, verso la sommità della collina piena e tondeggiante come il ventre di una madre.
E poi oltre, verso quel cielo blu così perfetto.
Il silenzio, completo.
Piccoli gruppi di persone sono sparsi qua e là sull’erba corta e soffice. Uomini, donne, e anche bambini. Ma non ci sono tovaglie quadrettate né cestini, a raccontare il picnic della domenica.
In ogni gruppo, un uomo si erge al centro, eretto e immobile, le braccia distese lungo i fianchi.
Negli occhi una luce bianca e densa nasconde iridi e pupille, cancella lo sguardo e l’umanità, li rende più simili a dèi.
Gli altri attorno li scrutano, muovono passi tanto lenti da mozzare il fiato, si fermano, posano sugli uomini-dèi sguardi di incomprensione, e di angoscia. Una donna giace inginocchiata, le braccia inutilmente adagiate sulle ampie volute della gonna turchese, e fissa quegli occhi senza capire.
Mi è parso di sentire un lamento, un singhiozzo disperato trattenuto a fatica, ma quando mi volto tutto è fermo; penso di essermi sbagliato. Il mio sguardo cade su una bambina, capelli biondi come il grano, tagliati corti, trattenuti da un cerchietto blu notte. Tiene la piccola mano in quella del dio, un gesto inconsapevole, e privo di significato: da lui non c’è reazione.
Giunto sulla cima, mi fermo accanto ad un uomo sdraiato sull’erba, lo sguardo rivolto all’insù. Anche lui è immobile, pare che non respiri nemmeno, non batte ciglio. Ma è vivo.
Riesco a gettare uno sguardo nella vallata oltre la collina.
Un’infinta giungla lussureggiante si stende a perdita d’occhio, selvaggia, primordiale. Da essa s’innalzano a stento sopra la vegetazione costruzioni aliene: piramidi e torri grigie piombo, le cui lisce superfici sono percorse da strisce color arancione. Prive di ogni logica o funzione apparente, disegnano percorsi e motivi geometrici oltre la mia portata.
Mi distendo sull’erba, e il paesaggio sfugge alla mia vista.
Accanto al mio nuovo amico è adagiato un dio, poggiato su un fianco lo guarda: la sua pelle è rossa, e rovente. Sento che trema, anche se non riesco a dirlo con certezza, e percepisco il furore dentro di lui che si agita, e il respiro soffocato della follia che lo istiga.
Fissa l’uomo accanto a me, pare lo stia scavando con lo sguardo… gli occhi…
Non sono più nascosti dalla luce, le pupille nere e contratte sono bene in vista in quegli iridi desertici.
“Adesso basta”.
Chi ha parlato?
Serve una frazione di secondo per riconoscere la mia voce, qualcosa di più per capire di essere stato io. Ma sembravo così lontano, fuori da me.
Però l’uomo-dio mi ha sentito. Si solleva sugli arti come fossero zampe di ragno, con falcate lente e misurate scavalca l’amico, si piega si di me, mi annusa.
Con un movimento compassato porta la bocca al mio collo… e mangia.
Sento i suoi denti affondare nelle mie carni, la pelle spaccarsi. Non fa male, ma la sensazione è orribile, perché ad ogni suo soffocato ansito il mio sangue gorgoglia.
L’uomo-dio si stacca, mastica, ingoia e di nuovo addenta. Non ho il coraggio di guardare lo squarcio nel mio ventre, dove ora si sta abbeverando.
Aspirando l'odore metallico, posso solo attendere che tutto finisca.