Il Canto - PrologoNemmeno un alito di vento smuoveva le nuvole bianche sopra Amaranta. Neanche il vociare dei bambini e dei venditori del mercato erano udibili quel giorno, e tutto pareva stranamente immoto, come in fremente attesa. Qualcosa stava mutando nei cieli azzurri di Ydh: il mondo si preparava ad accogliere il Cambiamento.
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In una stanza polverosa e piena di libri consumati e pergamene ingiallite, Imoterius stava seduto accanto ad un piccolo camino acceso. L’uomo era vecchio, più vecchio di qualsiasi altro essere umano che calcasse il suolo della contea di Lerantia, e appariva stanco e curvo. I suoi occhi non vedevano più, da molti anni ormai, così tanti che lui stesso stentava a contarli. Un bastone da passeggio, poggiato accanto allo sgabello su cui sedeva, ne confermava la sua infermità, ma nessuno degli abitanti di tutto il regno di Basaran avrebbe dubitato della sua capacità di vedere oltre l’apparenza materiale delle cose. Egli era conosciuto da tutti come l’Antico. Non aveva altro nome, e nemmeno i vecchi di Amaranta ricordavano di averlo mai sentito chiamarlo con un appellativo diverso. Era già canuto e raggrinzito quando gli anziani della città erano dei ragazzini imberbi e sfaccendati, e questa sua longevità accresceva l’alone di mistero e devozione che lo accompagnava.
In quella sala aveva ricevuto migliaia di persone durante la sua esistenza, contadini e regnanti, pescatori e cavalieri, giovani spose e nobildonne. Tutte le persone che avevano semplicemente bisogno di un suggerimento o che desideravano conoscere il proprio futuro chiedevano di essere ricevute da lui. Quanto era debole e meschino l’animo umano! Tutti speravano di risolvere i propri problemi, spesso materiali e superficiali, rivolgendosi ad un vecchio. Pochi supplicanti si congedavano da lui soddisfatti, dato che i responsi dell’aruspice non erano mai chiari e pienamente comprensibili. Le sue parole non erano mai la soluzione al dilemma, ma erano la chiave con cui esso poteva essere affrontato e risolto. La veggenza non era una scienza esatta, e le sue visioni sul futuro erano indistinte e avvolte nelle nebbie del Caos. «Il futuro non è determinato, ma è il risultato delle scelte di milioni di individui, che singolarmente possono stravolgere la trama e l’ordito dell’Arazzo degli Dei». Lo ripeteva sempre a chi smaniava di conoscere il proprio avvenire e si mostrava insofferente verso le reticenze dell’Antico. Capitava raramente che il destino di una persona fosse così forte da condurre, al di sopra di ogni ragionevole dubbio, al di là di ogni possibile combinazione di possibili futuri, a una sorte precisa e inevitabile. Anche in quei casi eccezionali, comunque, l’Oracolo non raccontava la sua visione in maniera completa. Non avrebbe potuto condannare un uomo a vivere nell’attesa di una morte violenta, ad esempio, perché sarebbe equivalso a infliggergli una pena greve ed intollerabile. Allo stesso modo non avrebbe potuto dire ad un nobile di rango inferiore che nell’arco di dieci anni sarebbe diventato re, poiché nella smania di ascendere al trono avrebbe compiuto delle avventatezze o delle scelte che ne avrebbero modificato il futuro. Il suo compito era semplicemente instradare senza forzature, quelle persone verso il loro destino, indicando loro un punto di partenza, ma mai quello di approdo.
Quella era sempre stata tutta la sua vita, ma ormai si sentiva stanco. Le sue vecchie ossa e il suo corpo mortale chiedevano il giusto tributo. Spesso si era chiesto il perché del suo dono, e per quale motivo gli dei l’avessero condannato a vedere ciò che agli altri era negato. Avrebbe voluto solo stendersi e riposarsi, un lungo ed eterno sonno ristoratore. Tuttavia sapeva che il suo compito, in quella vita terrena, non era ancora terminato. Poteva scrutare nel destino di ogni uomo, e aveva visto anche il proprio, che non era mai stato così chiaro e vivido come in quel giorno. Le dense nubi nere della guerra si ammassavano sopra la città, e la morte tramava nell’ombra. Stavano giungendo tempi terribili, eppure nessun esercito era in marcia lungo i confini, la contea e il regno prosperavano ed erano in pace da oltre un decennio.
Malgrado ciò le sue visioni non lasciavano spazio ad alcun dubbio. Vedeva le case bruciare, la città assediata, campi di cadaveri disseminati attorno e dentro le mura. Al di sopra di questo scenario apocalittico si stagliava una figura oscura e possente, così enorme da occupare tutto l’orizzonte, che tra le mani muoveva i fili di una marionetta dall’aspetto malvagio. Un mare di umanità fuggiva davanti a quella creatura immensa, e il mondo precipitava nel caos e nelle tenebre. Era una visione così inequivocabile e precisa come mai gli era capitato prima di allora, e capì che stava giungendo una nuova era su Ydh. Tuttavia, nel presagio era sempre presente una nota dissonante rispetto al quadro generale. Tre formidabili destini stavano per incrociarsi ad Amaranta, tre esistenze così eccezionali, anomale, straordinariamente mal assortite da avere la forza, o la follia, per riscrivere il futuro e cambiare un domani che sembrava ineluttabile.
Per la prima volta, dopo oltre un secolo di dubbi e domande insolute, l’Oracolo riconobbe lo scopo della sua lunghissima vita.
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Jeerkin giocherellava con una moneta d’oro, passandola abilmente tra le proprie dita sottili, come era solito fare nei suoi momenti di irrequietudine. Era adagiato comodamente su una poltrona soffice, collocata al centro di uno studio arredato con gusto. Vestito con dei morbidi e sofisticati abiti scuri, portava pochi altri ornamenti, se non due anelli, uno per ogni indice. I capelli cortissimi e neri, con una vistosa stempiatura, facevano tutt’uno con una barba curata e di pari lunghezza.
Su uno dei braccioli della poltrona era posato un libro aperto, prelevato dalla libreria in noce che occupava tutta la parete alla sua destra. Anche i restanti muri erano tutt’altro che spogli, essendo rivestiti di eleganti quadri e raffinati arazzi intarsiati. Una coppia di lucide sciabole incrociate era posizionata proprio alle spalle della scrivania, su cui erano sparse diverse pergamene. Soffici tappeti coprivano ogni centimetro di pavimento della stanza immersa nell’oscurità, rischiarata solo dalla fiamma tenue di alcuni ceri. Il fioco tremolare delle candele conferiva a Jeerkin un aspetto spettrale, sottolineato dall’espressione nervosa disegnata sul suo volto. Era teso come una corda di violino, le rughe che ornavano il suo viso parevano ancora più marcate.
I giorni della sua gloria personale stavano infine per giungere, e quando ciò fosse accaduto non avrebbe più dovuto nascondersi all’interno della stanza buia di una città a lui ostile, non avrebbe più dovuto tramare nell’ombra per riuscire ad emergere dal limbo nel quale si trovava. Tutti si sarebbero piegati al suo volere un giorno… o si sarebbero spezzati nel tentativo di resistergli. Quel momento però non era ancora giunto, e Jeerkin sapeva di non poter commettere errori. Un singolo passo falso e tutto il lavoro di anni sarebbe stato spazzato via come un castello di carte al vento. Aveva speso una vita per avere un’occasione come quella che si era faticosamente costruito, e finalmente iniziava a vedere il traguardo, la meta finale dei suoi sforzi.
In più di un’occasione si era trovato sull’orlo del precipizio, a causa dell’inettitudine dei suoi soci in affari. Questa volta però si era circondato di pochi collaboratori fedeli, e si era assicurato la segretezza e il silenzio di quelli precedenti nell’unico modo completamente sicuro: fare in modo che non potessero parlare mai più. La sua strada era segnata da una lunga scia di sangue, che venivano presto accantonate come perdite più che accettabili per un fine più grande.
Il fine era, ovviamente, prendere personalmente il potere, assaporarlo, crogiolarsi in esso, ed esercitarlo su quelle miserabili creature che lo circondavano. Una volta che il suo destino si fosse finalmente compiuto, avrebbe avuto poteri inimmaginabili per i comuni mortali e nemmeno quei vermi delle Nove Torri, quei maledetti maghi senza spina dorsale, avrebbero potuto fermarlo in alcun modo. Sarebbe stato ben al di là delle loro misere forze, oltre la portata dei loro incantesimi da quattro soldi.
Mancava solo un tassello nel suo mosaico e avrebbe eliminato quegli stupidi incantatori e il loro seguito. Deporre quel fantoccio del conte sarebbe stato un gioco, a quel punto. E lui avrebbe regnato incontrastato su Amaranta e su tutta la contea di Lerantia, per iniziare. Poi ne avrebbe varcato i confini alla guida di un esercito e…
I suoi pensieri vennero interrotti bruscamente da una serie di battiti sull’uscio della sua porta, ritmati secondo uno schema a lui familiare.
Jeerkin, rimanendo seduto, sussurrò una parola in una lingua gutturale e con un rumore metallico il chiavistello che isolava lo studio dal mondo esterno si aprì. Gary, un uomo di mezza statura dal fisico asciutto, entrò rapidamente nella stanza, richiudendo altrettanto lestamente la porta alle sue spalle. Jeerkin aveva una strana ossessione, quasi una fobia, per le porte aperte e non voleva di certo suscitare le sue ire, non ora che portava buone notizie. Forse avrebbe avuto una promozione, o un premio in denaro, per l’informazione di cui era latore.
«Mio signore» - interloquì senza aspettare di essere interpellato - «vi informo che abbiamo trovato la ragazza e…»
Il volto di Jeerkin era una maschera impenetrabile.
«Eccellente» - lo interruppe - «dove si trova ora?»
«Il mezzo demone la tiene d’occhio, signore. Alloggia alla taverna del Gufo Bianco, una bettola nel quartiere del porto.»
Il fatto che ci fosse Niirk a pedinare il suo obiettivo lo tranquillizzò. Del resto la ragazza non poteva sospettare di essere spiata e il mezzo demone avrebbe potuto seguire ogni sua mossa fingendo di essere un avventore abituale della taverna.
«Bene, digli di non fare mosse azzardate e di limitarsi a controllare ogni suo movimento per i prossimi giorni. Voglio sapere tutto ciò che mangia, tutto ciò che dice, tutte le persone che incontra. Voglio essere al corrente di ogni suo singolo respiro. Pretendo una lista dettagliata di tutte le altre persone che frequentano attualmente la taverna del Gufo Bianco. Chi sono, da dove vengono, perché sono ad Amaranta. Non possiamo lasciare niente al caso, potrebbe esserci qualcun altro che conosce il valore di quella ragazza. Ricorda che non possiamo scoprirci, tanto meno lasciarcela sfuggire: costi quel che costi.»
Jeerkin fece una lunga pausa, nuovamente assorto nei suoi oscuri pensieri, riprendendo a giocare con la moneta. Gary spostò nervosamente il peso del proprio corpo da una gamba all’altra parecchie volte prima di interrompere quel silenzio opprimente.
«Signore, c’è un piccolo dettaglio che potrebbe interessarvi…»
Jeerkin si limitò a sollevare lo sguardo sull’interlocutore, senza parlare.
«Beh, come dire… la ragazza è… ecco… la ragazza è incinta.»
«Oh, ma è proprio per questo che quella contadinella è tanto importante per noi…»
Il sorriso perfido che comparve sul volto di Jeerkin fece quasi rizzare i capelli sulla nuca di Gary.
* * *
Asmothet sedeva comodamente sul suo trono d’ossa nella fredda e spoglia sala centrale della Fortezza. Aveva atteso per seicentosessantasei lunghi anni il momento della sua vendetta, e quel momento era infine giunto. Sarebbe tornato nel piano di esistenza da cui era stato bandito quasi sette secoli prima, e avrebbe seminato la morte sui discendenti di coloro che avevano osato umiliarlo, imprigionandolo in un mondo buio e privo di vita.
Era riuscito a forzare alcuni dei potenti sigilli che gli erano stati imposti da quei piccoli maghi presuntuosi e aveva tramato nell’ombra, rafforzandosi e pianificando il suo ritorno in ogni piccolo particolare. Aveva ammassato ricchezze, eserciti e schiavi di ogni razza, creando una macchina da guerra efficiente e formidabile.
Ora che la scacchiera era pronta per l’attacco decisivo, Asmothet fremeva d’impazienza, pur senza darlo a vedere. Il suo viso spigoloso e fiero, proprio di un Principe dei Demoni, non tradiva alcun senso di urgenza. Le pedine erano tutte sistemate al punto giusto, e aveva appena mosso l’alfiere in posizione di attacco.
I patetici regnanti di Ydh si sarebbero chinati nuovamente al suo cospetto. E lui li avrebbe schiacciati uno ad uno.