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 Oggetto del messaggio: [monografia] The White Stripes
MessaggioInviato: mar lug 12, 2005 13:21 
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Signore e signori, è ora che io dia sfogo alla mi anima rock ‘n’ roll! Quindi vi sparo qui, in rapida sequenza rigorosamente non mixata una rapida biografia della band in questione ed alcune recensioni dei loro album più importanti. Scritti di mio pugno ci sono solo alcune note e commenti ed ho curato il layout… il resto l’ho pescato in paio di siti che mi piacevano. Spero piaccia anche a voi

THE WHITE STRIPES

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La leggenda vuole che John Antony Gillis (Jack) e Megan White (Meg), nel settembre del 1996, convolino a nozze, dando parallelamente la vita ad un progetto rock denominato The White Stripes. La regola appare semplice: un duo garage-blues formato solo da chitarra (only ultra vintage stuff!) voce, batteria, abiti rossi e bianchi, tanto per distinguersi ulteriormente “dal resto” (o c’è chi dice per non cadere nella trappola della band affascinante solo per il look).
Detroit. Anno 2001. The White Stripes sono la band di vertice di un nuovo movimento rock che comincia a “fabbricare”, in giro per il mondo, ma soprattutto negli gli Stati Uniti, band in sequenza, come un macchinario impazzito che sparge ovunque suoni garage, gruppi formati da due o tre persone al massimo, con formazioni esilaranti, tipo basso synth e batteria (vedi Whirlwind Heat, prodotti indovinate un po’ da chi? Esatto, bravi!) e tantissimi “The” a precedere il nome delle band. Ecco quindi The Strokes, The Vines, The Raveonettes, The Datsuns e chi più ne ha più ne metta. È una mania; tanto che anche le band che per anni erano uscite sul mercato col loro nome originale cominciano a cambiarlo, per ragioni di mercato principalmente, aggiungendo le tre fatidiche lettere all’inizio della parola (l’ultimo esempio in ordine di tempo è quello dei THE Prodigy. Ma come…Keith!! Anche tu???) [tra l’altro, in una polemica sorta tra i The White Stripes ed i The Strokes, i primi hanno affermato che non basta aggiungere l’articolo al nome del gruppo per fare del buon rock – n.d.rose]. Nei sei anni che separano il duo dalla data di nascita al successo planetario, come si suol dire, “di acqua sotto ai ponti…”, ed è così che nel frattempo i due si scoprono (e cercano di far scoprire al resto del mondo) fratello e sorella, poi spargono su internet un’altra leggenda molto beatles-style secondo cui Meg è morta qualche anno fa e poi… . Insomma, la stampa specializzata per più di tre anni è in preda a continui e infiniti orgasmi multipli. Di dischi fino al 2001 se ne contano 3. Rispettivamente un disco omonimo (ed anonimo [non sono d’accordo!!! –n.d.drose]) al nome del gruppo, un altro intitolato come il famoso movimento artistico nordeuropeo De Stijl, penetrato da influenze folk e country e White Blood Cells, forse il migliore dell’intera produzione White, per spirito rock, belle canzoni e atmosfere a “tinte varie”. Balzo in avanti fino a quando su Mtv (e ciò aggiunge implicitamente altri particolari alla biografia del duo) si comincia a sentire un giro di basso (che poi, ovviamente, non è un basso, bensì una chitarra “plagiata” da pedali infernali) che letteralmente fa muovere le chiappe. Per più di cinque mesi è impossibile cercare riparo, per sfuggire al na-na na na-na-na-aaa di Seven Nation Army, singolo apripista di Elephant, quarto lavoro in studio della band. È il panico. Anche nelle discoteche si comincia a ballare e a zampettare la canzone (che fastidioooo!). L’album vende così tanto che Jack e Meg potrebbero vivere altre quattro vite non facendo una beneamata mazza dalla mattina alla sera: miglior album rock per le principali riviste del settore.
Ma anche copertine per giornali di moda, tutta la crew della band veste rigorosamente in modo eccentrico, di cinema, perché giustamente Jack si mette anche a recitare, oltre che trombarsi Renèe Zellweger, scandalistici, perché dopo aver prodotto, oltre ai già citati Whirlwind Heat, l’album d’esordio dei suoi concittadini The Von Bondies ne pesta a sangue il frontman, Jason Stollsteimer, riducendogli la faccia come un hamburger vomitato da Giuliano Ferrara e per aver deciso di entrare dentro un negozio con l’automobile sfasciandosi quasi irrimediabilmente una falange del dito indice. Insomma dove c’è Jack White c’è serenità e armonia.

Fonte: Giov – Emotional Breakdown


DISCOGRAFIA ESSENZIALE

White Blood Cells
XL, 2002
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Il terzo disco di questo singolare (!) duo da Detroit raggiunse le nostre latitudini circondato da una sfrigolante nuvoletta di hype. Mi ci avvicinai con la ormai consueta diffidenza, però all’assaggio mi sembrò subito quel che mi sembra ora: divertente. Senza amore, solo sesso, se così si può dire. O meglio, con tutto l'amore nascosto dietro il ludibrio del sesso, come è bello e giusto che sia. Urgente e ruvido quindi, ruffiano e insidioso, torrido come il blues, crepitante come certo garage-punk, sapido e roots come la corteccia di tanto rockeggiare più passato che presente (ahinoi). Sbocciano tra le tracce riferimenti ai Sonic Youth più canzonettari, l’utilizzo delle voci rivanga quelle maledette e scanzonate di Gordon Gano e del primo Wayne Coyne (obliqua irridenza sul rovello dell'anima), i riff di polvere e ghiaccio (bollente) chiamano all’appello la PJ Harvey più torrida e i Dinosaurs Jr più asciutti, quantomeno nell'attitudine.
All’epoca i due si spacciavano per fratello e sorella, però seminando striscianti dubbi para-incestuosi: non che me ne fregasse qualcosa allora, mentre oggi, che vi devo dire, anche meno. Di significativo c’era invece che Jack (voce, chitarra, organo e piano) e Meg White (batteria e cori) facevano quel che dovevano, il giusto casino, un po' di cuore, un pizzico di genio. Dietro a queste canzoni (16, x complessivi 40 minuti), confezionate perlopiù senza economie d'adrenalina ed elettricità, si rannicchiano le melodie arricciate e rocciose del country (Now Mary), o certe scheletriche tenerezze folk (We're Going To Be Friends), o quel po’ di lugubre che da sempre si porta in seno il blues (Dead Leaves And The Dirty Ground). Il tutto trasposto su scenari giovanilisticamente nevrotici (I Think I Smell A Rat), talvolta ammorbato da psichedelie hard (Fell In Love With A Girl), talvolta disperso tra irrisolte romanticherie (The Same Boy You've Always Known) o strapazzato da una frenesia al limite del patologico (Hotel Yorba).
Parlano insomma un linguaggio antico e bruciante con una certa qual personalità, seppure rinviabile a troppe cose troppo ascoltate. Chiudi gli occhi, e ti appare questa girandola a base di Stooges e Tom Petty, Stones e Tom Waits, Big Star e Jon Spencer, oltre naturalmente a tutto quanto prima nominato. Difficile formulare la diagnosi, si rimane nel dubbio tra sapiente strategia produttiva e passione incallita, tra marketing e nutritiva ossessione. Comunque sia, nel finale c’è quel breve, scarno (piano e voci) errebì sognante (This protector), che riesce a strattonarci dalle parti del suo incanto indolenzito con la potenza disinvolta dei piccoli capolavori. Genietti o furbastri, chissà.

Fonte: Stefano Solventi – Sentireascoltare.com

Elephant
XL, 2003
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Per quanto riguarda questo album, inserisco due recensioni diverse: una più entusiasta, l’altra decisamente meno. Personalmente questo album mi piace, ma qualche difettuccio ce l’ha… a voi scegliere da che parte schierarvi – n.d.rose

La musica di Elephant è bella e meglio arrangiata rispetto a quella coltivata in cantina ma allo stesso modo genuina degli album precedenti. Black Math è semplicemente la miglior canzone rock dell’anno (col cavolo che Mtv la passa con la stessa frequenza di I Just Don’t Know What To Do With Myself, quella del video con Kate Moss aggrovigliata al palo) e dal vivo è devastante. Ci sono più sonorità, non sembra che il disco sia stato registrato con un quattro piste (cosa che accadeva con gli altri lavori), c’è più spazio per il piano, per la voce e le tette di Meg. Ma, proprio per questi motivi però, qualcuno ha già cominciato a cantare il declino dei veri White Stripes.
Fonte: Giov – Emotional Breakdown

Siccome è il caro vecchio gioco del rock’n’roll - una truffa innocua e frizzantella di fronte alla quale, chissà, magari qualche nostalgico dal cuore generoso può ancora scandalizzarsi un pochetto – i due fratelli (fratelli?) White recitano la parte ad arte, con in faccia stampata la tipica espressione da “contenti voi, a noi non pare il vero”. In Elephant, quarta fatica sulla lunga distanza del duo di Detroit, si divertono ad attizzare ulteriormente la fiammella della pruderie adombrando l’equivoco rapporto tra Andy e Meg nella conclusiva It's True That We Love One Another, con la terza incomoda Holly Golightly a condire la ricetta di saporiti effluvi country-RnB. Nient’altro che un happening conclusivo, tra l’estemporaneo e lo scazzone, eppure rischia di essere ricordata come la traccia migliore del programma, la più viva se non altro.
Sì perché questo disco ha un problema, un problema abbastanza grosso, ed è questo: se la cifra sonora è la più strutturata e visionaria che abbiano mai licenziato - con quelle rasoiate di chitarra in parossistico deragliare ed il torrido baluginio degli organi – al punto da sembrare assieme rievocazione e caricatura del suono vintage a cui si ispira, di contro le trame melodiche denunciano una preoccupante apnea creativa, un’eclisse di personalità che le rende impietosamente succedanee del piuttosto eccitante predecessore White Blood Cells.
Vale, certo, il peso specifico di questo suono che sembra scheggiarsi a contatto con l’aria, ostinatamente imbastito con strumentazione d’epoca (pare che le chitarre e le tastiere utilizzate non risalgano ad oltre il 1963!), ed è apprezzabile il tentativo di recuperare i prodromi stessi della psichedelia (flagrante nella caligine beatlesiana di You’ve Got Her In Your Pocket o nell’hard-blues fluviale e scorticato un po’ Hendrix e un po’ Ten Years After di Ball And Biscuit) allorché sbocciò proprio dal blues e dal folk opportunamente inaciditi ed elettrizzati. Proprio per questa spiccata attitudine a scavare nel solco della Storia, impossessarsi di antiche calligrafie ed attualizzarle apparentemente senza sforzo, ritengo gli Stripes un gradino sopra rispetto alla recente sfornata di nostalgici quali Strokes, Coral e Libertines, questi ultimi nient’altro che cottarelle adolescenziali rispetto all’amore – che dico - alla riverenza professata dai fratellini (fratellini?) from Detroit. [quanto concordo!!! – n.d.rose]
Entrando nel merito delle canzoni, però, le note si fanno oltremodo dolenti: scarseggiando come già detto le idee, ogni pezzo sembra aggrapparsi ad un magro espediente melodico attorno a cui si raggruma tutto il resto, vale a dire emerito contorno, apoteosi del marchio, puro mestiere. Talora, come in There’s No Home For You Here, l’assalto lisergico di chitarra, organo e cori (quasi in stile Elephant 6: ogni riferimento al titolo del disco è casuale?) garantisce pure qualche sussulto, ma stringi stringi i versi sono la solita piatta tiritera, come ben ci conferma l’assioma di monotonia militante di The Hardest Button To Button (quantunque vibri di graffiante frammentazione post punk) e The Air Near My Fingers.
Prima di applicare queste considerazioni a tutto il resto, tengo a sottolineare la confortante presenza di qualche lodevole zampata d’orgoglio: prendete Little Acorns, ovvero il pezzo che Billy Corgan vorrebbe scrivere da qualche anno, oppure Girl, You Have No Faith In Medicine, in pratica i Sonics rifatti dai Blues Explosion, o infine – perché no - l’apprezzabile ballad stoniana I Want To Be With The Boy. Evidenti dimostrazioni di stoffa alla luce delle quali spiace ancora di più la pochezza complessiva del disco, rafforzandosi altresì il sospetto – il timore - che il fenomeno White Stripes sia stata l’ennesima breve fiammata nel lungo vespro del rock.
Fonte: Stefano Solventi – Sentireascoltare.com

Get Behind Me Satan
V2, 2005
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In un certo senso, Elephant era un disco riuscito, perché a dispetto di una certa banalità di scrittura riusciva ad imporre la sua prepotente strategia di forme: lanciato a bomba sul pubblico-bue, faceva l’effetto di un pachiderma idrofobo in un centro commerciale. E giù a gridare al miracolo, alla rivelazione. Salvo poi annoiarsi tempo pochi ascolti, perché la noia è l'obiettivo vero e inconfessato di ogni esperienza post-pop. Ma non divaghiamo. Con Get Behind Me Satan Jack e Meg tornano all’ovile, dove conta più la nota che la spada, dove le ombre possono più del calcestruzzo. Non un gran disco, a dirla tutta. Però c’è da fare i conti con un suono curioso, tra il torbido e il gotico, il rurale e l'ancestrale, un suono cucito addosso a canzoni dai contorni tremuli, che aleggiano come fantasmi di qualche era geologica fa.
Ecco dunque le particelle elementari di vibrafono, il drumming un po' infantile un po' primordiale, il glockenspiel e il chitarrone acustico, lo shaker e la fosca legnosità del basso, e soprattutto il piano, un piano lunare, indolenzito, flebile. Una parata di elementi sulle cui impronte sbocciano folk blues dal languore intossicato, come la lunare I'm Lonely, quasi un traditional ricostruito, o White Moon, fragile e collosa come un Alex Chilton agonizzante, o quella Little Ghost che avrebbe potuto forse scrivere un Cobain tenero, unplugged e – soprattutto - sopravvissuto. L’aria che si respira è un po’ da ritorno al futuro, considerato l’arcaismo scellerato di certi blues-rock (la torbida Red Rain, l'alcolizzata The Denial Twist, l'ibrido Lennon-Led Zeppelin di Instinct Blues) o la sfacciataggine bluegrass di As Ugly As I Seem, mentre altrove predomina un gusto sospeso tra il grottesco e l’onirico (il calypso sgrammaticato tra ragli e tonfi di The Nurse, la filastrocchina Passive Manipulation per vocina di Meg, il comico fervore scat/stomp di My Doorbell).
Ad introdurre questo caravanserraglio c'è però lo schiaffo, la frustata, il rogo sacrificale che esplode nel riff caricaturale e icastico di Blue Orchid, sberleffo ghignante da marionetta dark (non a caso “visualizzato” dall’impagabile Floriana Sigismondi nel relativo video clip) che non mancherà d’irretire crudelmente e giustamente tutti i babbei Mtv-dipendenti. Ah, le care vecchie truffe del rock’n’roll…
Per la capacità di far sembrare plausibile l’improbabile (e viceversa), Get Behind Me Satan è un disco che ci riconcilia coi White Stripes, ed è allo stesso tempo la conferma dei nostri dubbi sul loro conto: perché queste cartoline dal loro esilio sulla Main Street sembrano ritagliate da un almanacco (trovato in chissà quale baule, oppure ordinato su e-bay), perché né la voce che si corruga si straccia si snerva né l’ostinata configurazione “vintage” della strumentazione riescono a dissolvere quella maschera che fa sembrare il canto anche l'interpretazione di un canto, e il suono anche la ricostruzione di un suono. Quasi che gli Stripes avessero scovato la pietra filosofale che muta la più autentica ossessione nella più occhiuta strategia, e la loro musica in una celebrazione scaltra e devota.

Fonte: Stefano Solventi – Sentireascoltare.com


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