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 Oggetto del messaggio: I MONACI (tra film, D&D e storia)
MessaggioInviato: gio dic 30, 2004 00:41 
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Ecco un po' di informazioni che hanno tramutato degli uomini la cui vita si basa sulla spiritualità in una delle classi più discusse del mitico Dungeons & dragon.

Shaolin

Shao significa giovane, Lin foresta, Si tempio e Chuan pugilato. Quindi il significato letterale di Sha Lin Si Chuan è : "Arte di combattimento del tempio della giovane foresta".

E' una efficacissima arte marziale praticata nel famoso tempio buddhista Shao-Lin ed insegnata dal leggendario monaco Bodhidharma.



Le Origini



Nel 525 dopo Cristo arrivò al tempio Shao Lin il famoso monaco Bodhidharma, 28° Patriarca del Buddhismo e fondatore della scuola Chan. La parola Chan deriva dal sanscrito DHYANA e significa meditazione. Il Buddhismo Chan (ZEN in Giapponese) ha avuto grande influenza sulle Arti Marziali cinesi e su quelle giapponesi nobilitandole e trasformandole in un mezzo di perfezionamento spirituale.



La Storia



Il tempio di Shaolin venne fondato nel 400 d.C. (non si conoscono i nomi dei fondatori poiché i documenti bruciarono durante la dinastia Ch'ing). Shaolin sorge sul monte Sung Shan nell'attuale Honan.
Verso il 520 d.C., sotto il regno dell'imparatore Wu Ti della dinastia Liang, comparve Ta Mo (Bodhidharma in giapponese) 28° patriarca della dottrina buddista Chan (Zen in giapponese) e primo patriarca cinese.
La leggenda vuole che Ta Mo si fermò al tempio e vi introdusse le basi della sua religione. A lui si attribuisce lo stile Shi Pa Lo Han Shou (18 mani di Han o dei discepoli di Budda). Il maggior sviluppo del tempio si ebbe sotto la dinastia Sung (960 - 1260 d.C.). In questo periodo i monaci aiutarono gli imperatori a combattere i nemici, insegnando ad essi le loro arti: marziali, religiose e politiche; o prestando la loro opera direttamente. Nel 1279 d.C. Kubilay Khan (nipote di Gensis Khan) sconfisse l'ultimo imperatore Sung che si uccise a Canton, nasce la dinastia Yuan (1279-1368 d.C.), è l'epoca dei viaggi di Marco Polo.
Durante la dinastia Yuan visse uno dei più grandi maestri di shaolin:

Chang San Feng, monaco taoista al quale, molte leggende attribuiscono la nascita del Tai Ji Quan.
Altre fonti fanno risalire il Tai Ji Quan. al periodo Tang, tra l'ottavo ed il nono secolo. Questa seconda ipotesi fa comunque riferimento a Scuole di Arti Marziali diverse successivamente unificate da Chang San Feng. Una terza ipotesi porta a Wang Zong Yue e lo indica come il fondatore del Tai Ji Quan.

L'invasione mongola è sconfitta nel 1368 e salì al trono Chu Yuan Chang che divenne imperatore con il nome Hung Wu: nasce la dinastia Ming (1368-1644 d.C.). Questa dinastia portò un periodo di splendore in Cina.
I monaci riordinarono le tecniche del metodo da combattimento Shaolin.

Chuen Yuan, monaco Shaolin, riordina lo shaolin in 72 tecniche fondamentali. Insoddisfatto cerca altri maestri fuori dal monastero.
Un giorno lungo il suo viaggio itinerante, incontrò Li Chen un vecchietto. Il vecchietto si era appena difeso senza fatica da cinque aggressori, che avendo la peggio scapparono. Il maestro Li Chen insegna il suo stile, ma poi rivelo al monaco che esiste un maestro molto più esperto ed abili di lui, il maestro Pai Yu Feng. I tre maestri si recarono al monastero. Misero a punto un sistema di ben 170 tecniche fondamentali e 5 stili principali: stile del Drago, stile della Tigre, stile della Gru, stile del Serpente, stile del Leopardo.

Grazie ad una rivolta scoppiata a Pechino salirono al potere in Cina i Manciù (Mandarini) era il 1644. Nacque la dinastia Ching. Il questo periodo il tempio Shaolin diventa luogo di incontro e di rifugio dei perseguitati politici, ribelli verso il nuovo regime: il regime degli invasori Manciù. In questo periodo il famoso monastero, dopo una storica battaglia fra i monaci ed i soldati 100 volte più numerosi, venne messo a fuoco. I monaci superstiti fuggirono nel sud della Cina (Fukien) dove ricostruirono un secondo Monastero Shaolin, ma i Ching bruciarono anche questo secondo tempio, era il 1664.
Da questa data inizia la diaspora: tutto si disperde, ma alcuni monaci riescono a sfuggire all'incendio e continuarono nell'anonimato l'opera di diffusione in tutto il territorio cinese, dando origine a varie scuole di Shaolin Quan. Dopo la rivoluzione culturale cinese, la scuola di Kung Fu Shaolin venne riaperta per proseguire l'opera di sviluppo del Kung Fu; fu ristrutturata per continuare l'opera monastica e di insegnamento degli antichi monaci guerrieri.
La scuola è diventata un punto d'incontro per tutti i maestri e cinesi in genere, che trasferiscono le proprie conoscenze sulle tecniche da combattimento, tramandate nello loro famiglie.

Questa opera di recupero e di trascrizione, viene effettuata anche in altre parti della Cina nei vari Istituti di Ricerca: vere e proprie scuole adibite allo studio e alla pratica del Kung Fu, il più conosciuto è senz'altro l'Istituto di Ricerca di Pechino. Nell'antichità c'erano due tipi di abitanti del monastero Shaolin: i monaci che meditavano, pregavano, si prefiggevano l'ascesa spirituale; profughi politici, che si battevano per la restaurazione dell'impero Ming. Questi ultimi erano dei militari, addestrati non solo nel combattimento a mani nude, ma anche nell'uso delle armi: sciabole, spade, lancie alabarde ecc. Le regole del Monastero erano rigidissime, lo studio era pesante, infine per potersi chiamare Shaolin c'erano tra le altre tre prove: un esame orale sulla religione, sulle scienze apprese, e sulle teorie dei sistemi da combattimento; dei combattimenti contro Monaci più esperti; infine se le altre due prove venivano superate, l'esame finale consisteva nell'introdursi nei sotterranei del Tempio, dove c'erano 108 manichini meccanici armati, ognuno dei quali infieriva una tecnica mortale al malcapitato, qualora passasse in quella determinata zona. Questi fantocci erano attrezzati anche con armi, erano costruiti in modo da reagire diversamente uno dall'altro se venivano colpiti, reazioni diverse anche se si colpiva lo stesso manichino. L'esaminando doveva passare nei corridoi del sotterraneo e colpire, uno per uno tutti i manichini, che lo attaccavano lungo in corridoio, abbattendoli.
Se infine riusciva a passare (e sopravvivere) a questa prova, doveva rimuovere una lastra incandescente pesante circa 250 Kg. Quest'ultima lasciava a fuoco sugli avambracci i simboli di un drago e una tigre: cicatrici indelebili a testimonianza di una vita dedicata alla vita monastica e allo Shaolin.




L'insegnamento



Il maestro indiano notando che molti monaci erano indolenti, pigri e deboli, e che spesso si addormentavano durante le lunghe ore di meditazione, indicò l'importanza di avere un corpo sano per sviluppare un forte spirito interiore. Bodhidharma insegnò pochi ma importantissimi esercizi per potenziare il corpo in ogni sua parte e sviluppare l'energia interna tramite esercizi respiratori. Questi esercizi venivano eseguiti dai monaci ogni mattina per tre ore di seguito. A Bodhidharma fu pure attribuita una serie di esercizi denominati "SHO PA LO HAN SHOU" ossia le 18 mani dei discepoli del Buddha. Questi esercizi erano delle tecniche di combattimento a mani nude e sono considerate, assieme ai cinque animali, il nucleo originale dello Shao Lin Tsu.

Dallo Shao Lin Tsu classico derivano non solo tutti gli stili di Kung Fu, ma anche tutte le Arti Marziali asiatiche.

I tesori dello Shao-Lin venivano detti i cinque chuan.Ogni chuan comprendeva varie posizioni e prende il nome dell'animale che meglio incarnava i suoi attributi.


I cinque Chuan



1°- Il drago

che abitua all'attenzione concentrata, al vigore, alla resistenza ed alla
calma mentale tramite la respirazione.

2°- La tigre

che rinforza muscoli ed ossa e accentua la capacità di attaccare sfruttando
tutta la potenza del corpo.

3°- Il leopardo

che pratica l'agilità e la capacità di balzare come felini.

4°- Il serpente

che stimola l'energia interna ed aiuta il corpo ad essere più sensibile,
attivo e veloce.

5°- La gru

che abitua alla stabilità, all'equilibrio ed alla determinazione.


Vi è inoltre la Mantide Religiosa come allenamento di uno stile supplementare.

L'antico stile dei monaci guerrieri del monastero buddista dell'Honan nasce dall'esperienza
filosofica, ginnica e marziale del 28° patriarca del Buddismo Mahayana, TaMo, il quale, circa nel
520 d.C., proveniente dall'India e dopo varie vicissitudini, si stabilisce nel monastero del "Giovane Bosco": Shaolin. Da lui e dai suoi insegnamenti i monaci Shaolin divennero i più temuti e straordinari esperti di Kung Fu.
La loro esperienza ha alimentato la maggior parte degli stili marziali cinesi.



BUDDHISMO ZEN



L’insegnamento del Buddha ci è pervenuto riflesso e frammentato in varie scuole.
Nonostante l’apparente diversificazione delle scuole e dei metodi di insegnamento, i principi basilari sono comuni.

La prima è detta Scuola Meridionale ( Theravada) o Hinayana, e fa riferimento ai testi Pali. Tuttora prospera nel Sud-est asiatico rappresenta l’unica sopravvissuta di un ampio ventaglio di scuole scomparse.

La seconda è detta Scuola Settentrionale e fa riferimento a testi in sanscrito.

Lo Zen appartiene alla Scuola Settentrionale.
Il termine Zen deriva, attraverso una traslitterazione del cinese Chan e dal sanscrito Dhyana (Meditazione). Storicamente la scuola della meditazione nasce in Cina dove fiorisce sotto la dinastia T’ang. All’inizio del secolo XIII approda in Giappone, dove attualmente è diversificata nelle scuole Zen: Rinzai e Soto. Dopo la sua nascita in Cina, la scuola Zen svilupperà linee specifiche che si proponevano ognuna come la continuazione dello stile di vari grandi maestri, considerati in seguito i fondatori delle varie tradizioni.

La patria storica dello Zen è dunque la Cina; qui le complessità del Buddhismo indiano vennero rimodellate sul modo di vita cinese, pragmatico e concreto, assumendo col tempo forme in armonia con la cultura locale e assimilando come sempre nel Buddhismo la cultura ospitante.


ETICA

Pare giustificato affermare che lo Zen rappresenta un ritorno dai profondi ma intricati sistemi filosofici e psicologici della Scuola Settentrionale ,
agli insegnamenti originari del Buddha.
La tradizione vuole che lo Zen sia stato introdotto in Cina dal monaco indiano Bodhidharma, primo patriarca cinese. In realtà fiorì e produsse i suoi tratti distintivi solo durante la generazione successiva al sesto patriarca Eno.
Sin dal suo apparire, sia per la sua predisposizione pratica, la scuola generò i propri maestri in luoghi remoti, dove la sopravvivenza era possibile soltanto con la coltivazione della terra; sistema di vita sconosciuto al Sangha (comunità di monaci) indiano.
Il lavoro divenne uno dei fattori fondamentali della pratica; cita un famoso maestro. Ancora oggi nei monasteri zen in Europa ed in Italia la pratica di samu (lavoro) è una componente basilare per la crescita spirituale dei praticanti.

La vita dello Zen è basata essenzialmente sui sedici precetti Buddhisti del Bodhisattva.

Bodhisattva è colui che rinuncia al Nirvana sino a quando anche l’ultimo degli esseri non abbia realizzato l’Illuminazione.

Questi principi dello Zen sono stati sviluppati in risposta ad una situazione culturale e ad un’epoca che è quella in cui lo zen ha iniziato a manifestarsi. Poiché la condizione umana e quindi la situazione socio culturale, è in continuo mutamento, è naturale che pur mantenendosi inalterato il contenuto e carattere originario dei precetti, la loro esplicitazione possa assumere forme e manifestazioni differenti, per aiutare meglio il praticante zen.
Possiamo trovare traccia di questi cambiamenti ad esempio nella formulazione dei Precetti dell’"Ordine dell’Interessere" del Maestro Tich Nat Han, come anche nella formulazione data dal "San Francisco Zen Center" fondato da Suzuki.

PRECETTI

I 16 Precetti del Bodhisattva
I sedici Precetti Buddhisti costituiscono una parte così tipica della pratica Zen, che vengono tradizionalmente chiamati " Il sangue delle vene" degli antichi lignaggi.
Quando si ricevono i 16 voti di Bodhisattva, si riceve un documento che attesta questo lignaggio di "sangue " degli antichi Maestri.
Per generazioni e generazioni "il sangue" dello Zen è passato ininterrottamente da Maestro a Discepolo, sino a noi oggi.



I TRE RIFUGI

Sanbokai

Rappresentano le fondamenta e l’orientamento della vita del Bodhisattva.

I Tre Rifugi o Tre Tesori "San Bo" sono : Il Buddha, Il Dharma, Il Sangha.

-Noi prendiamo rifugio nel Buddha: facciamo voto di vivere nell’Illuminazione, cioè prendiamo atto della natura illuminata che è già in ogni essere: a noi viverla!

-Noi prendiamo rifugio nel Dharma. Dharma indica sia l’Assoluto, che l’insegnamento, cioè il divenire dell’Assoluto. Fare voto di rifugio nel Dharma, significa seguire le regole stesse dell’Universo e i suoi insegnamenti, che nel Buddismo si manifestano attraverso le indicazioni degli antichi Maestri e dei Sutra del Buddha stesso.
-Noi prendiamo rifugio nel Sangha. Riconosciamo il ruolo interattivo di tutti gli uomini e la loro manifestazione come Buddha: esseri illuminati.
Solo quando riconosco tutti gli esseri come Sangha del Buddha, posso interagire con la loro vera essenza, non con la manifestazione egoica che li rappresenta.



I TRE PRECETTI UNIVERSALI

SANJUJOKAI

Non fare il male
Fare il bene
Aiutare tutto gli esseri.

Tre indicazioni essenziali Universali, della coscienza di ogni uomo.

Non fare il male: è prendere consapevolezza del proprio vivere spesso egoico e prevaricatore, è una continua attenzione alla nostra vita e al rispetto della vita dell’Universo.
Astenersi dal nuocere a se stessi e agli altri, agli animali, alle piante, al pianeta intero.
Fare il bene: è la conseguenza diretta dell’astenersi dal fare il male, ma è molto di più. Spesso non basta non fare, ma è importante l’azione che si compie e come si agisce nella vita.
Aiutare gli altri: è l’unione del sé con il tutto. E’ scoprire che sino a quando tutti gli esseri non saranno risvegliati, nessuno lo sarà, e nello stesso tempo, quando un essere "diviene" un Buddha, l’intero Universo è un Buddha.



I DIECI PRECETTI ESSENZIALI

Il Maestro Buddhista Shantideva nel suo Bodhicayavatara dice: "Non sono i voti del Bodhisattva a riempire la mia esistenza, ma è il mio vivere che riempie di vita i voti stessi".

1 Entrare nella Via di non uccidere coltivando e incoraggiando la vita.

2 Entrare nella Via di non prendere ciò che non è dato coltivando e incoraggiando la generosità.

3 Entrare nella Via di non abusare dell’amore e del sesso coltivando e incoraggiando una onesta relazione tra tutti gli esseri.

4 Entrare nella Via di non parlare falsamente a proprio vantaggio coltivando e incoraggiando la giusta conoscenza.

5 Entrare nella Via di non intossicarsi e di non intossicare gli altri coltivando e incoraggiando la chiarezza

6 Entrare nella Via di non giudicare gli altri coltivando e incoraggiando il mutuo rispetto per tutti gli esseri e l’Universo.

7 Entrare nella Via di non elevare me stesso abusando degli altri coltivando e incoraggiando me (se ) stesso e gli altri a vivere in accordo con la propria Natura Risvegliata.

8 Entrare nella Via di non mettere scompiglio nel Sangha coltivando e incoraggiando una relazione reciproca di aiuto tra tutti.

9 Entrare nella Via di non indulgere all’ira coltivando e incoraggiando una relazione di amore e comprensione.

10 Entrare nella Via di non abusare dei Tre tesori coltivando e incoraggiando la Via del Bodhisattva per tutti gli esseri.



STORIE ZEN

Nan-in, un Maestro Giapponese dell'era Meiji (1868-1912), ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen. Nan-in servì il te. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare. Il professore guardò traboccare il te, poi non riuscì più a contenersi. "E' ricolma. Non ce n'entra più!". "Come questa tazza" disse Nan-in "tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo zen, se prima non vuoti la tua tazza?".


Gli insegnanti di Zen abituano i loro giovani allievi a esprimersi. Due templi Zen avevano ciascuno un bambino che era il prediletto tra tutti. Ogni mattina uno di questi bambini, andando a comprare le verdure, incontrava l'altro per la strada.
"Dove vai?" Domandò il primo. "Vado dove vanni i miei piedi" rispose l'altro. Questa risposta lasciò confuso il primo bambino, che andò a chiedere aiuto al suo maestro. "Quando domattina incontrerai quel bambino" gli disse l'insegnante "fagli la stessa domanda. Lui ti darà la stessa risposta, e allora tu domandagli: "Fa' conto di non avere i piedi: dove vai, in quel caso?". Questo lo sistemerà. La mattina dopo i bambini si incontrarono di nuovo. "Dove vai?" domandò il primo bambino. "Vado dove soffia il vento" rispose l'altro. Anche stavolta il piccolo rimase sconcertato, e andò a raccontare al maestro la propria sconfitta. "E tu domandagli dove va se non c'è vento" gli consigliò il maestro. Il giorno dopo i ragazzi si incontrarono per la terza volta. "Dove vai?" domandò il primo bambino. "Vado al mercato a comprare le verdure" rispose l'altro.


Il grande santo buddhista Nagarjuna andava in giro tutto nudo, con solo il perizoma e, paradossalmente, una ciotola dorata per raccogliere l'elemosina, dono del re che era suo discepolo. Una sera stava per mettersi a dormire, fra le rovine di un antico monastero, quando si accorse che un ladro lo stava spiando da dietro una colonna. "Tieni, prendila", disse Nagarjuna, porgendogli la ciotola. "Così non mi verrai a disturbare quando sarò addormentato". Il ladro arraffò la ciotola e fuggì via, per ritornare però il mattino seguente con la ciotola e una richiesta: "Quando ieri sera mi hai regalato questa ciotola con tanta generosità, mi hai fatto sentire molto povero. Insegnami come fai a procurarti la ricchezza che ti permette di avere questo sereno distacco dalle cose".


Ikkyu, il maestro di Zen, era molto intelligente anche da bambino. Il suo insegnante aveva una preziosa tazza da tè, un oggetto antico e raro. Sfortunatamente Ikkyu ruppe questa tazza e ne fu molto imbarazzato. Sentendo i passi dell'insegnante, nascose i cocci della tazza dietro la schiena. Quando comparve il maestro, Ikkyu gli domandò: "Perché le gente deve morire?" "Questo è naturale" spiegò il vecchio. "Ogni cosa deve morire e deve vivere per il tempo che le è destinato." Ikkyu, mostrando la tazza rotta, disse: "Per la tua tazza era venuto il tempo di morire".


Un giovane andò da un maestro e gli chiese: "Quanto tempo potrò impiegare per raggiungere l'illuminazione?" Rispose il maestro: "Dieci anni". Il giovane era sbalordito. "Così tanto?" domandò incredulo. Replicò l'altro: "No, mi sono sbagliato, ci vorranno venti anni". Il giovane chiese: "Perché hai raddoppiato la cifra?" Allora il maestro spiegò: "Adesso che ci penso, nel tuo caso ce ne vorranno probabilmente trenta".


Ti sei svegliato prima dell'alba, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Quando il sole era basso hai attraversato tutta la pianura, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Mentre il sole era alto nel cielo hai cercato tra le piante di tutta la foresta,
ma il tuo nemico non l'hai trovato. Il sole era rosso nel cielo mentre tu cercavi sulla cima di tutte le colline, ma il tuo nemico non l'hai trovato. Ora sei stanco e ti riposi sulla riva di un ruscello, guardi nell'acqua ed ecco il tuo nemico: l'hai trovato.


Un uomo perse il suo anello più prezioso; cercò ovunque per ritrovarlo, ma nonostante la sua fatica non ci riuscì. Si sedette su una pietra, disperato, cercando inutilmente di sopprimere la sua disperazione. Come al solito il suo cane gli si avvicinò cercando le carezze del padrone. Il vicino di casa lo salutò come ogni sera. Gli amici gli fecero vedere i pesci che avevano pescato e gliene regalarono alcuni. La moglie e i figli lo accolsero con affetto al suo arrivo a casa esattamente come accadeva sempre. La giornata si concluse nella pace familiare. Purtroppo il tormento per la perdita dell'anello perseguitava ancora l'uomo, il quale però pensò: "nessuno si è accorto che ho perso l'anello, tutti si sono comportati con me come sempre, perché proprio io devo comportarmi in modo diverso con me stesso?". Fu così che si addormentò sereno.


Il maestro Tanzan era in viaggio con il suo allievo Ekido lungo una strada fangosa. Ad un certo punto incontrarono una bella ragazza in kimono e sciarpa di seta, che non poteva attraversare quella melma, senza rovinare il suo bel vestito.
Senza problemi, Tanzan la prese in braccio e la trasportò sull'altro lato della strada. Ekido rimase pensieroso per tutto il giorno. Alla sera, non resistendo più, chiese apertamente al maestro: "Noi monaci non avviciniamo le donne, è pericoloso. Perché l'hai fatto?" Tanzan rispose: "Io quella ragazza l'ho lasciata laggiù. Tu la stai ancora portando con te"


Non cercare di seguire le orme dei saggi. Cerca ciò che essi cercavano.

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MessaggioInviato: gio dic 30, 2004 01:26 
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:clap: complimenti Nosfy(tutto il nome è troppo lungo),mi hai fatto venir voglia di interpretare un monaco!Missà che ci faccio un pensierino! :d :d

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PER QUALSIASI RIMOSTRANZA SU TORTURE O AVVELENAMENTI O OMICIDI SIETE PREGATI DI NON SCASSARMI LE COSIDDETTE, MA DI RIVOLGERVI AL MIO AVVOCATO...ORE PASTI, CHE NEL RESTO DEL TEMPO LAVORA ALACREMENTE PER CONQUISTARE IL MONDO!!!


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ODIO CHI LI DEFINISCE POWA PLAYER!
sono delle personalità moto difficili da interpretare, e per questo di una certa caratura, dire poi che non tutti ne sono in grado è un altro conto.
Interpretare un monaco significa studia re un modo di pensare totalmente diverso da quello occidentale (cioè il nostro quotidiano).
Interpretare significa anche conoscere, chi non conosce è powa palyer, chi conosce può far la differenza al livellodi gioco di RUOLO.
Spero di "rompere" i preconccettial riguardo, se non ci riuscissi sono sicuro di avervi rotto altro....

:roll:

:lol:

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Viva la tigre e la gru shaolin! :Sorrisone: :Sorrisone: :Sorrisone: :Sorrisone:
ottimo lavoro Nosfy :ok: :clap:




P.S.

Suggerisco ancora una volta il sito della mia palestra di kung fu
http://www.tigredoro.org


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Una cosa: Bodhidarma credo sia indiano, non giapponese :P
Poi, mi pare che Da Mo scrisse un trattato sullo sviluppo muscolare (Yin Gin Ching, l'unico dei due trattati che è sopravissuto fino ad oggi), e sviluppò non una forma di combattimento, ma una forma di Wai Dan.
Questa forma è quella da cui si sono ispirate tutte le altre forme, e concentra sopratutto il Chi nei pugni e nella parte alta del corpo.. infatti poi venne sviluppata una forma per portarlo ai polsi, e alcune forme (le sequenze in movimento) per coinvolgere anche le gambe. :wink:

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Cosi' Senno Rikyu, fondatore della cerimonia del tè descrive la sala dei monasteri Zen dove tale evento ha luogo.
Secondo la tradizione orientale, infatti, tè e Buddhismo Zen sono strettamente legati.

Una leggenda narra che Bodhidharma - che portò lo Zen dall'India alla Cina - rimase seduto nove anni in meditazione in una grotta nei pressi di Shaolin. Per non addormentarsi si taglio' le palpebre e nel punto in cui le getto' crebbe una piante di tè.

Al di la della crudezza dell'immagine, tale leggenda ci ricorda quanto il tè aiuti a mantenersi vigili, condizione essenziale nella meditazione Zen. E' per questo che ancora oggi nei monasteri e nei centri Zen di tutto il mondo servire e consumare il tè in silenzio e piena consapevolezza fa parte della pratica.


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Intrisa di mistero e fascino il rito della preparazione del te verde giapponese rappresenta una vera e propria forma di meditazione dove l’arte esasperata del rito formale e dell’etichetta incarnano alcuni dei valori più pregni della cultura Zen.

Zen e té

La fortuna dello zen è dovuta probabilmente ad una grande semplicità e ad un atteggiamento "rilassato" nei confronti della dialettica mezzo-fine.
La non-definizione classica di Zen di Po-Chang "Quando ho fame mangio, quando ho sonno dormo" ha il fascino disarmante di una verità che però si capisce solo a metà.
Più note dello zen stesso sono le applicazioni dello zen alla vita quotidiana, dalla cerimonia del tè alla calligrafia, dalla progettazione di giardini alle arti marziali. Questo folclore giapponese ha portato alla convinzione che sia "zen" tutto quello che è perfetto, semplice, naturale, ecologico, mentre è vero esattamente il contrario. Lo zen deve e può essere applicato soprattutto alle situazioni difficili, complesse, anche a quelle più artificiali.

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La cerimonia del tè, nella sua essenza, è l’espressione sintetica degli aspetti fondamentali della cultura giapponese. In quanto tale si è conservata nei secoli e nonostante l’inevitabile commercializzazione, avvenuta nell’immediato dopoguerra, è riuscita a preservare la sua simbologia al di là dell’innegabile aspetto folcloristico ad essa connesso.Accanto alle scuole tradizionali ne sono nate di nuove ed oggi, a differenza di ieri, sono le donne più che gli uomini a dedicarsi a questa arte raffinata, il cui studio rientra certamente nel curriculum di ogni ragazza di buona famiglia.
Il tè che si usa nella cerimonia non è il comune tè in foglie che si immerge in acqua calda. Si tratta di un tè dal caratteristico colore verde brillante, finemente polverizzato e disciolto in acqua calda con un frullino di bambù. Ne risulta una bevanda densa, leggermente spumosa, da un caratteristico sapore amarognolo assai diverso da quello del tè comune. Uno scrittore cinese lo ha infatti poeticamente definito "spuma di giada liquida".

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Il tè simbolizza l'essenza dell'ospitalità e viene servito a ogni ora del giorno: sempre e subito quando si riceve un ospite, ma anche spessissimo per sé o per i propri familiari, senza un motivo preciso né un'ora stabilita, come per creare una più calda intimità. L'aroma del tè accompagna le ore di lavoro e quelle del riposo, i momenti gioiosi e quelli dolorosi, il suo calore riscalda e conforta d'inverno, il suo leggero profumo rinfresca il corpo e lo spirito, nelle umide calde estati giapponesi. Il tè giapponese, al contrario di quelli indiano o cinese che hanno subito processi di fermentazione e sono di colore marrone scuro, non è fermentato, ed è generalmente verde: altamente dissetante si beve sempre senza alcuna aggiunta di zucchero, latte o limone.

Preparazione per infuso: si pone a scaldare l'acqua e si mettono in una teiera un po' di foglioline verdeggianti e profumate. Poco prima che l'acqua giunga a bollore la si versa nella teiera, per una durata che dipende dal tipo di tè usato. Si versa, senza usare un colino, nelle tazze che sono senza manico: le foglioline si saranno nel frattempo gonfiate e non usciranno dal beccuccio della teiera. Sottolineiamo che il tè giapponese non va mai versato nella teiera piena di acqua bollente, né lasciato bollire.
La cerimonia del tè (sado o chado, la via del tè) è l'atto che più di tutto sottolinea l'importanza della condivisione di un'atmosfera di tranquilla serenità. Descriverne l'essenza è veramente impresa ardua: si può dire che armonia, rispetto, purezza, calma, grazia, ricerca della bellezza in una austera semplicità e in una povertà raffinata ne sono le componenti principali.

Il tè viene di solito servito in una stanza in stile tradizionale giapponese, con gli ospiti e chi invita seduti sui tatami. Il tè matcha si presenta come una finissima polvere color verde pallido.
Con un sottile cucchiaio di bambù se ne mette una piccola dose in una grossa ciotola di ceramica, vi si versa poi il quantitativo necessario di acqua calda e si rimescola velocemente usando una specie di frullino ricavato da un solo pezzo di bambù.
Il tè, che ricopre appena il fondo della tazza, appare come una verde crema schiumosa, di sapore amaro, ma molto dissetante. Lo si beve dopo aver mangiato un piccolo dolce a forma di fiore, frutto o foglia. La cerimonia del tè è considerata un mezzo per aiutare la concentrazione mentale e il suo scopo è quello di purificare i sensi e rasserenare lo spirito degli ospiti presenti. Per un laico il matcha viene sempre accompagnato dai chagashi, piccoli dolci di forme graziosissime, che non vengono preparati in casa, ma in botteghe di antica tradizione.

L’Usucha e il Koicha rappresentano visivamente due momenti distinti della cerimonia e il rituale ad essi associato è infatti diverso. Il Koicha prevede l’uso di un’unica tazza da cui ogni ospite beve solo pochi sorsi. Il protocollo prevede che prima di portare la tazza alle labbra la si ammiri; dopo aver assaggiato il tè ci si complimenti per il sapore e poi si bevano ancora un paio di sorsi prima di passare la tazza all’ospite vicino avendo accuratamente asciugato con un tovagliolo la parte da cui sia ha bevuto. Finito il giro è possibile che l’ospite più importante chieda di ammirare nuovamente la tazza per apprezzarne la qualità.

Koicha, il tè denso; e Usucha il tè leggero. La cerimonia nella sua interezza richiede molte ore per cui, riservando la cerimonia completa alle occasioni speciali, generalmente ci si limita al solo momento dell’Usucha.

Nel caso dell’Usucha il protocollo, come anticipato, è leggermente diverso. Ogni ospite infatti beve tutta la tazza di tè, poi con le dita asciuga il bordo e si asciuga le mani con un tovagliolo, e restituisce la tazza al padrone di casa che la lava con acqua calda e dopo averla asciugata la riempie di nuovo per servire un altro ospite La tazza viene data all’ospite presentando la parte più bella. L’ospite a sua volta avrà cura di girarla in modo da non bere dalla parte migliore.

Riassumendo

La cerimonia si basa sui principi di armonia, purezza, rispetto e tranquillità; gli stessi gesti che vengono seguiti con uno schema rigido rappresentano ognuno un particolare di questi modi d’essere dell’uomo. Come ogni cerimonia che si rispetti anche il luogo svolge un ruolo da protagonista: la scenografia giusta vede una casa del tè molto rustica, dal tetto di paglia e circondata da un lussureggiante giardino, con stanze spoglie se non per le decorazioni (fonte col giardino della conversazione più consona a questo rito): gli ospiti vengono fatti accomodare sui tatami sinchè non si sente il richiamo di un gong che annuncia l’inizio della cerimonia vera e propria. Dopo essersi risciacquati la bocca, il cerimoniere guida i suoi invitati in una serie di gesti simbolici, apparentemente comuni e umili come lo sciacquio della tazza. Tutta la preparazione e consumazione della bevanda segue delle regole ferree che a molti appaiono alquanto ostiche ma proprio per questo furono considerate un buon allenamento per gli esercizi di meditazione. Infatti inizialmente tale uso nacque presso i monaci buddisti come rinforzante nella loro preparazione psichica, ben presto però divenne uno dei caratteri distintivi dell’aristocrazia. In Giappone si possono trovare dei veri e propri corsi per conoscere ed imparare al meglio tale tradizione, elemento essenziale anche dell’istruzione dei vecchi samurai; alcuni alberghi offrono fra i loro servizi anche la partecipazione a questa cerimonia, ma occorre sempre prenotare e il tutto avviene alla presenza di pochissime persone. Il tè è rigorosamente verde e non il più conosciuto k_cha (tè nero all’inglese). Anche la miscela di tè è molto particolare, si tratta di una farina detta matcha, la cui combinazione con l’acqua ( a 60°!!!) darà dopo un lungo lavorio di shacheraggio con una frusta di bambù una condensa spumosa, color pisello, molto eccitante data l’alta concentrazione di principi attivi, nulla a paragone col più comune tè verde in foglie detto o-cha.
La bevanda va servita in tazze apposite come quelle in ceramica Raku ( create da Ch_jir_), di colore nero o rosso, prive di ogni decorazione, che simboleggiano la negazione del movimento con la loro staticità e semplicità. Ancora oggi comunque tale cerimonia è se non proprio comune per lo meno molto apprezzata dal popolo del Sol Levante, per la sua capacità di rilassamento che trascende dalla quotidianità di Tokyo e dintorni spesso troppo rumorosa e nevrotica. In Italia potete trovare persino dei siti che commerciano gli articoli necessari a tutte le varie fasi della cerimonia, dalla teiera in ghisa alla tazza detta chawan, dal frullino, il chasen, al mestolo chiamato hishaku.
Il tè, divenuto cerimonia, si accompagnò a nuove consapevolezze in campo artistico-architettonico e non mancò di influenzare, con il suo amore per la semplicità e la sobrietà, la vita di tutti i giorni.
La popolarità della cerimonia nel XVII secolo fu responsabile del grande impulso dato allo sviluppo della ceramica, e in particolar modo a quella usata per i tè. Nacquero molte scuole, ognuna rispondente a dei precisi canoni estetici, ognuna riflettente la filosofia ed il gusto di un particolare Maestro.
Le tazze Raku, originarie di Kyoto, furono quelle che incontrarono più successo tra gli intenditori. Esse sono piacevoli al tatto e ispirano serenità nella loro peculiare semplicità ed elegante sobrietà decorativa. Generalmente non sono perfettamente rotonde ma sono fatte in modo da essere tenute con entrambe le mani, come è consuetudine bevendo il tè. Il bordo superiore non è perfettamente liscio ma è ondulato, così da offrire una sensazione piacevole quando portato alle labbra. La base in genere non è invetriata, lasciando così vedere il tipo di argilla di cui è fatta la coppa. Non presentano un motivo decorativo preciso, ma la decorazione è creata dalla invetriata e dal gioco di colori naturali e di contorni.


http://www.luisellagiobbi.com/cerimonia_te/cerimonia.html

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MessaggioInviato: ven dic 31, 2004 05:30 
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Iscritto il: lun ott 18, 2004 15:49
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ammetto di non essere un grande amante della cultra orientale, ma trovo il topic molto interessante, tra l'altro lo farò sicuramente leggere a un mio amico che va matto per sto genere di cose...


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MessaggioInviato: mer mar 09, 2005 16:35 
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grazie.. c'è tutto quello ke cercavo... :wink:

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MessaggioInviato: mer mar 09, 2005 21:02 
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prego miei cari, anzi, invito chi ne sapesse di più a scrivere affinchè si possa capire / caratterizzare come si deve un monaco, classe al quanto bistrattata su D&D da molti master.

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