Con questo testo ho partecipato al concorso di scrittura che si teneva nel mio liceo (2 anni fa) e ho vinto il secondo premio nella sezione narrativa!

Spero vi piaccia!
LA CITTA’ SOLITARIACammino lungo strade di periferia. È mattina presto e fa piuttosto freddo. Anche quest’anno sta finendo e tutti si preparano ad accogliere il nuovo: le finestre brillano di piccole stelle intermittenti nelle prime luci del mattino, arcobaleni di lampadine incorniciano le porte, non un’anima per le strade, non un rumore.
La città solitaria dorme, alle soglie del nuovo giorno.Lascio che la fresca brezza risvegli i miei sensi sopiti. Che pace! È per questo che mi piace uscire così presto la mattina, quando anche il sole deve ancora svegliarsi: solo adesso posso godermi questo silenzioso spettacolo, tra un’ora tutto questo sparirà, violentato dal velenoso abbraccio della tecnologia, asfissiato dal fetido respiro della città che si sveglia.
Cammino lentamente, per le fredde vie della città quando qualcosa mi rotola dinnanzi ai piedi: i fosforescenti colori di una palla quasi feriscono i miei occhi mezzi addormentati. Mi chino e la raccolgo, rigirandomela tra le mani. Opachi ricordi di un passato svanito balenano nella mia mente. Poi mi accorgo di non essere solo.
In piedi a qualche metro da me, un bambino mi osserva: è sporco, mal vestito e incredibilmente magro. I grandi occhi neri brillano, nel grigiore dell’alba.
“E’ tua questa? Come ti chiami piccolo?” gli chiedo. Lui non risponde. Resta lì fermo. Trema. Ma non di paura: sta rabbrividendo per il freddo. Non c’è da stupirsi: i pochi stracci che ha addosso non possono certo difenderlo dalla pungente aria del mattino.
Lentamente mi sbottono la giacca, la sfilo e gliela porgo.
“Hai freddo, vero? Prendila, è tua.” Dei passi sulla mia sinistra mi distraggono: una donna si avvicina svelta al bambino, lo prende in braccio, poi mi guarda.
“Perdonalo, signore. Lui è piccolo, spero non ha disturbato.”
L’accento è nettamente slavo. E lei è nettamente incinta.
“Nessun problema. A tuo figlio è scappata la palla.”
Avvolgo la sfera colorata nel mio cappotto e gliela porgo.
“Tieni piccolo, questa roba è tua.”
“Ma signore, la giacca è tua. Non può prenderla.”
Poverina. Gli occhi le brillano al solo vedere la calda e morbida stoffa che tengo in mano. La vuole, sa che è l’unica cosa che potrà permettere a suo figlio di superare Capodanno. Lo sa perfettamente, ma cerca comunque di rifiutare.
“Se lui non la vuole allora la lascerò qui per terra, a qualcuno piacerà sicuramente…” Detto questo mi piego e depongo il pacchetto al suolo. La donna non mi stacca gli occhi di dosso e ugualmente fa il bambino. I loro occhi si muovono velocemente da me alla giacca, per poi tornare su di me.
“Beh… io vado. Buona giornata. Prenditi cura di tuo madre, capito ragazzo?”
Detto questo mi allontano, nella mia direzione iniziale. Poi sento un trotterellare alle mie spalle e una tenera vocina che rompe il silenzio:
“Signore!”
Mi volto e lo vedo lì, qualche passo dietro di me con la palla in mano: me la sta porgendo.
“Prendi, signore! È tua!”
Mi chino e gli sorrido. Allungo le mani e le stringo intorno al suo regalo.
“Grazie, piccolo.”
“Mi chiamo Adrien.”
“E io sono Spider.” Rispondo porgendogli la mano. Lui allunga la sua, minuta e ossuta, ma dalla stretta solida. Ce la farà, lo so. Lui sopravviverà.
“Buon anno Adrien.”
“Buon anno anche a te, signor Spider.”