Conosco questa fantastica band grazie ad un mio buonissimo amico che me ne ha parlato all'inverosimile. Sono veramente grandiosi!
Dato che però non conosco bene la loro storia, penso che sia meglio appoggiarsi a chi ne sa di più. Per questo posto questo articolo tratto da
http://www.sentireascoltare.com
Arcade Fire
di Stefano Solventi
Gli ingredienti sono ben riconoscibili, ma l’intruglio ha una potenza rara. L’intraprendenza volitiva e struggente, pittoriche scorribande folk wave al confine – talora oltre - con ciò che usiamo definire gotico e barocco. Gli immaginifici paradigmi degli Arcade Fire.
Tragedie, funerali e bibbie kitch
di Stefano Solventi
Vengono da Montreal, Quebec, porzione francofona del Canada. Tanti i musicisti e gli strumenti in gioco (pianoforti, chitarre, percussioni, archi, xilofoni, tastiere, arpa, corni, organi di varia natura…), ma il cuore della band è un duo, il compositore, chitarrista e cantante Win Butler - timbro tra il Wayne Coyne più onirico e lo Ian McCulloch più sdrucito - e Régine Chassagne, originaria di Haiti, sua compagna di vita, co-autrice dei pezzi, polistrumentista (fisarmonica, pianoforte, chitarra, mandolino, flauto…) nonché dotata di voce tra il soave e l’irrequieto, tanto da ricordare un po' la Bjork giovane e un po’ l’ultima e più languida Kazu Makino.
Poche band (tanto meno al debutto) hanno dato l’impressione di saper padroneggiare così bene i materiali stilistici. Con audacia, con trasporto, con entusiasmo travestito da mistero. Senza troppa voglia di nascondere le fonti d’ispirazione, che anzi vengono ostentate come attori importanti del gioco. Radici folk e angosce wave, spurghi elettrici e sdilinquimenti orchestrali, orizzonti psichedelici e teatralità glam, il tutto avvinghiato fino a confondersi, in un corroborante imbastardimento formale ed emotivo. Un po’ come l’alternanza tra francese e inglese, frutto di identità borderline nel cuore di una civiltà in bilico tra centro e periferia.
Il 2003 è l’anno zero degli Arcade Fire. Régine e Win decidono di fare sul serio autoproducendosi l’
Arcade Fire EP (2003), grazie al non certo piccolo aiuto di un bel po’ di concittadini musicisti. Sette tracce che prefigurano tutto il loro arsenale: in testa il profluvio esagitato e romantico di
Old Flame (chitarrina e voce uggiolose, una ballata
Patrick Wolf pungolata dai
Flaming Lips), in coda gli indolenzimenti folk di
Vampire/Forest Fire (ancora i Flaming, però in fregola
Roy Orbison), in mezzo sbalestramenti stilistici già in grado di far girare la capoccia. Si va dal passo marzial-wave di
No Cars Go (residui
Talking Heads tra allarmi e suggestioni bucoliche) al friabile struggimento di
Headlights Look Like Diamonds (col controcanto di Régine a scomodare una tensione catchy
Sugarcubes), andando a parare dalle parti di certo soul stentoreo e sdrucciolevole in
My Heart Is An Apple (più o meno il
Neil Young di
This Note’s For You sul punto di inciampare in un delirio lipsiano).
Tra incanto e bizzarria, malinconie senza requie ed enfasi madreperlacea, le canzoni si svolgono come brani di una lunga visionaria parabola, con la nostalgia wave sul punto di deflagrare epica (dalle parti degli
Echo And The Bunnymen) ed il folk a caracollare saturo di rigurgiti psych e guizzi pop (
7.0/10).
Artifici e crepacuore
Sono soltanto i primi vagiti di un discorso sonoro in espansione, che riscuoterà entusiasmi un po’ ovunque (il dischetto, venduto brevi manu dagli stessi Win e Régine, andrà sold-out più o meno ad ogni data) e sponsor eccellenti (
David Bowie e
David Byrne sono tra i primi e più accaniti fan). L’anno successivo troverà una eclatante consacrazione: Funeral (Merge, 14 settembre 2004) si presenta come uno zibaldone, anzi un intruglio, anzi un ricettacolo di vecchi motori rombanti e proiettori che non smettono più di girare, di angolose traiettorie intellettuali e oniriche divinazioni, di fulgidi tremori e bieche luminarie, di modernità e abbandono, morte e vita a galoppo attraverso metaforici campi di battaglia. Eppure, tutto suona programmato, coeso, spinto da una corrente appassionata e lucida. Peregrinazioni filmiche tra lande romanticamente fosche, frenetiche, schizoidi. Come capita nei quattro episodi intitolati
Neighborhood, opportunamente numerati e muniti di sottotitolo così da non perdersi tra spurghi wave guizzanti e vapori al neon, affettazioni d’organo e pianoforte, casse in quattro che si fanno largo nella bruma delle elettroniche e degli archi, nevrosi - ça va sans dire - Talking Heads e nevrastenie
Frank Black, spiritelli - ovviamente - Flaming Lips e solennità
Echo And The Bunnymen, mestizie
Black Heart Procession e invasamenti
PIL.
In un paio di circostanze è come se venisse dichiarata una tregua, e sono i momenti migliori: tocca all’ugola di Régine tratteggiare gli struggenti ideogrammi di
In The Backseat, ballata di dolore stilizzato ed enfasi sospesa, ottima per chiudere la scaletta. La palma di miglior pezzo se l’aggiudica però
Une Année Sans Lumière, per quel senso di quiete trepida, di artificio e crepacuore, di plastica e sabbia e periferie anni ottanta, un procedere dritto e afflitto basso-chitarra-synth che si sgretola sbatacchiando sulla wave serrata del finale. Una vera e propria poetica dell’artificio, potente e pervadente: si prenda il soul-rock in tre quarti di
Crown Of Love (con fuga dance conclusiva
Abba-style), i riff chitarristici pesanti ma agili di
Wake Up (in un brodo di archi, synth e fisarmonica, come dei Neutral Milk Hotel presi in ostaggio dai
Polyphonic Spree) e la wave cruda di
Rebellion, che tra basso impellente e caligini radioattive sembra una tardiva cospirazione
New Order-Sound. (
7.4/10)
L’ordigno funziona a tal punto che… esplode. Eccome se esplode. Recensioni fragorose. Una pioggia di riconoscimenti (nomination ai Grammy e ai British Awards, vittoria del Juno Award). Gli U2 che li reclamano come opening act per il Vertigo Tour. Quindi, imprevedibile apoteosi mediatica, si ritrovano addirittura in copertina dell’edizione canadese di Time. Insomma, se
Funeral non è un capolavoro è senz’altro un evento, forse quanto di meglio la musica pop potesse esprimere in tempi di reality e fiction, di vita che si avvita tra imitazione e mitizzazione di (ciò che è stato) vita.
Nuove strade (senza uscita)
Chiaro che all'album successivo sarebbe toccato un compito come minimo arduo. Gli anglosassoni, che hanno bisogno di dare un nome a tutto, prima ipotizzano che la difficoltà a ripetere le buone prestazioni (per un atleta, per uno studente) sia una sindrome, poi la chiamano “sophomore jinx”. Ebbene, tutte cazzate per Win e Régine. Tra tour e impegni vari (memorabile l'esibizione al Coachella 2005 di fronte a 15000 persone, così come la collaborazione con Bowie impegnato a rileggere classici come
Five Years e
Life On Mars), ci mettono quasi tre anni per confezionare
Neon Bible (Merge / Rough Trade, 6 marzo 2007), disco che non solo conferma in pieno la brillante vena della coppia, ma rilancia sul piano degli arrangiamenti e della personalità.
E’ come se tutta la sovrastruttura che dicevamo, quel bozzolo versicolore di riferimenti, quel paludamento di rimandi, venisse fatto sprofondare nella densa pozione sonora. Dalla voce di Win, più spessa e legnosa, alla sontuosa coltre degli archi, si avverte il tentativo di svincolarsi dalla facile riconoscibilità, accogliendo istanze più atmosferiche ed emotive che non formali. Gli Arcade Fire sembrano diventati una combinazione alchemica tra il romanticismo brusco dei
Waterboys, l’ipertrofia orchestrale di certa Bjork o dei
Sigur Ros o dei Mercury Rev e la crudezza dinoccolata dei
Violent Femmes, ma se prima i riferimenti possedevano una flagranza al limite della citazione, oggi possiamo individuarli come sentori di riferimento d’un bouquet strutturato, punto di combustione melodico posto tra le nude radici e le fronde rigogliose, tra certo folk-blues gotico e terrigno ed il pop più sovraccarico e sofisticato.
Il tema della guerra, delle sue motivazioni e delle conseguenze, asperge su tutto un senso di angosciosa perdizione, di valori dissipati e ingannati, divorati da una cancerosa mancanza di
buona fede, esemplificata dalla bibbia al neon che intitola il lavoro, al contempo sacra e sacrilega, sommo emblema di trascendenza kitch. Tra gli sfondi eniani della travolgente
Keep The Car Running, la languida cupezza di Ocean Noise, il commosso crescendo orchestrale di
Intervention, l’escalation crudo/nevrastenico di
My Body Is A Cage e la felpata sordidezza della title track, si svolge un tragico e talora eccessivo paradigma moderno. Una parabola fastosa a cuore nero, schiacciata dalla tragedia imminente, road to nowhere (
No Cars Go, recuperata dall’ep di esordio e opportunamente riarrangiata, sembra in effetti una febbrile rilettura del celebre pezzo delle teste parlanti) senza un barbaglio di speranza all’orizzonte. Un quadro in cui non resta che spendere al massimo la passione di vivere, coltivando ogni emozione, ogni palpito di vita, come un dono precario e perciò meraviglioso. (
7.2/10)
Nel guazzabuglio del post-emul, vera e propria fucina dell’effimero glamour, gli Arcade Fire si distinguono per il sovraccarico emotivo ed esistenziale, per quel senso di ferita aperta nel ventre enfiato del presente, da cui cola – tra le altre cose – la loro musica. Col rischio di apparire ampollosi, velleitari. Oppure dei funesti poseur. Ma è un dazio che, personalmente, sono lieto di pagare.