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 Oggetto del messaggio: [monografia] Captain Beefheart
MessaggioInviato: mer feb 09, 2005 16:31 
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Voglio inserire anche la monografia di questo grandissimo artista (musicista e pittore) estremamente anticonformista ed innovatore. Però, dato che non lo conosco a sufficienza per fare un buon articolo, mi affido al grandissimo Piero Scaruffi (http://www.scaruffi.com). Buona lettura.

CAPTAIN BEEFHEART
di Piero Scaruffi

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Don Van Vliet, noto negli ambienti musicali come Captain Beefheart, è uno dei musicisti più originali e importanti del ventesimo secolo.
Van Vliet ha forgiato un linguaggio musicale che attinge a fonti tanto spericolatamente diverse come il folklore delle fiabe, la pittura astratta di Jackson Pollock, l'associazione libera del surrealismo, le sinfonie di Charles Ives, le filastrocche dell'infanzia, Van Gogh, il free-jazz, la musica dei commercial; ma ha usato il blues del Delta, quello più ruvido e primitivo, come fondamenta e impalcatura del suo edificio artistico.
Al tempo stesso Van Vliet ha compiuto una prodigiosa operazione di abuso fisico e psicologico su quelle fonti, e in particolare sul blues, ottenendo l'equivalente musicale di una spaventosa deformazione visiva, una sorta di esagerazione demenziale dei dogmi artistici di surrealismo, dadaismo e cubismo.
Per ottenere quella folle deformazione, quel "warping" spazio-temporale, quella prospettiva apocalittica e blasfema, Van Vliet ha fatto soprattutto leva sulla mostruosa apertura vocale, che, come cantante, gli consente di impersonare personalità sempre diverse ed estreme (in un sublime atto di schizofrenia), anche all'interno dello stesso brano, e di visitare depressioni psichiche e stati di allucinazione con la delicatezza di un rinoceronte.
Mentre gran parte della musica rock assumeva una qualità "mitologica" che alla fin fine si riduceva a un'operazione sciamanica e taumaturgica nei confronti di una realtà angosciante, Van Vliet procedeva in direzione opposta, accentuando gli squilibri psichici causati da quella realtà, spingendoli all'eccesso della pazzia, cibandosene come un cannibale spirituale. Se il resto della musica rock metteva il cuore nella musica, Van Vliet ci metteva la mente, e non la mente razionale, bensì la mente istintiva e primordiale, la mente dilaniata dalle frustrazioni e dalle contraddizioni della società moderna, la mente del subconscio collettivo che si esprimeva per spasimi, ringhi, ruggiti e ululati, come un animale in gabbia.
Van Vliet stese un ponte ideale fra l'animale che si agita ancora dentro il nostro repertorio genetico e l'uomo sintetico del duemila.
La sua era una forma di iper-realismo innestata sulle ansie e fobie dell'era atomica, un iper-realismo che sfociava in una grottesca rappresentazione pagana di quell'era.
Anche nell'aspetto mondano Van Vliet si differenzia dal resto dell'ambiente musicale: Van Vliet è stato uno dei personaggi più pittoreschi della musica rock degli anni '60 ed è in seguito diventato uno dei personaggi più reclusi della musica rock.
Nato a Glendale, nei pressi di Los Angeles, nel 1941, Don Van Vliet crebbe dal 1954 a Lancaster, nel deserto del Mojave. Dopo aver manifestato una precoce inclinazione per la pittura e la scultura (i suoi pupazzi d'argilla vennero utilizzati per otto anni da una trasmissione televisiva), Van Vliet si diede alla musica, imparando a suonare il sassofono e l'armonica. Militò nei Blackout, un complesso di rhythm and blues. I suoi studi all'Antelope Valley College durarono sei mesi. Poi Van Vliet si trasferì nella stessa area di Cucamonga in cui esercitava Frank Zappa, i due divennero amici e suonarono in alcune formazioni locali, spartendosi i magri guadagni e l'anonimato. Esuberante e intraprendente oltre misura Zappa, abulico e indisponente oltre misura Van Vliet, i due ebbero sempre problemi a coesistere. Il soprannome di Captain Beefheart glielo diede comunque Zappa (per un film sui freak mai realizzato).
Captain Beefheart formò la Magic Band nel 1964 a Lancaster. Il gruppo esordì dal vivo alla Hollywood Teenage Fair del 1965. Nel giro di due anni il loro sound si evolse da un'imitazione dei Rolling Stones a un rhythm and blues senza capo né coda, il più scalcinato dell'epoca.
Nel loro stile apocrifo la fantasia e l'ironia (davvero dirompenti) contavano più dell'imitazione dei modelli originali, in maniera non molto diversa da ciò che stavano facendo gli Holy Modal Rounders nel folk. Ciascuno dei membri stava mettendo a punto uno stile tanto blasfemo quanto originale, in particolare il batterista John French (assorbito nel 1967, diciottenne). Ma forse più rappresentativo era un cugino di Van Vliet, Victor Hayden, che suonava il clarinetto basso (senza aver mai imparato a suonarlo) e si faceva chiamare "The Mascara Snake". Grazie a Hayden, la Magic Band entrò in contatto con una non meno pittoresca comune di artisti-monaci che ospitavano spettacoli alternativi nel loro convento di Los Angeles.
La Magic Band, come i Mothers Of Inventino di Zappa e, sull'altra costa, i Fugs, era uno dei primi complessi non commerciali, del tutto indifferente ai generi di moda e alle classifiche di vendita. La Magic Band si spingeva oltre quella dichiarazione di indifferenza suonando blues (che già non era in sintonia con Beatles e Beach Boys) e per di più suonandolo in maniera eccentrica, da far rivoltare nella tomba Robert Johnson. Di tutti i complessi che fondarono il rock alternativo, la Magic Band era quella veramente agli antipodi della musica di regime (surf, Merseybeat, teen idols).
Per essere pittoresco fino in fondo, Van Vliet conferì a ciascun membro del complesso un soprannome di battaglia (French era "Drumbo") e una maschera, secondo uno schema che risaliva alla commedia dell'arte italiana e che era misteriosamente arrivata ai freak di Los Angeles (e che sarebbe stata ripresa dai Gong di Canterbury e dai Residents della new wave).
Ad aprire la discografia era stato il singolo Diddy Wah Diddy (il classico di Bo Diddley), seguito dal singolo Moonchild scritto appositamente dal loro produttore, David Gates. Un brano composto da Van Vliet, Here I Am I Alway Am rimase inedito. Le prime registrazioni del 1966 verranno poi raccolte su The A&M Sessions (Edsel). Il decuplo di rarità The Lost Episodes pubblicato da Frank Zappa contiene invece le primissime registrazioni di Captain Beefheart, in particolare Lost In A Whirlpool del 1959.
Il primo album, Safe As Milk (Buddah, 1967) vedrà la luce soltanto nel 1967.
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Safe As Milk, che annovera il giovane Ry Cooder alla chitarra, fornisce la versione edulcorata di quelle idee. Compressa nel formato della canzone di tre minuti, il blues primitivista della Magic Band acquista i connotati comici tipici della sottocultura freak. L'irruenza strumentale e vocale, a stento contenuta, si sfoga in una caricatura della musica di consumo.
Il disco si presenta come un flusso di relitti scampati a una furia devastatrice. L'ira di Beefheart si abbatte senza pietà sulle dodici inermi unità sonore, tramutandole in altrettante sfide al senso comune del pudore.
L'occulta personalità del leader ha modo di mettere in luce un piglio dadaista e un'allegria allucinogena che di volta in volta possono ricordare uno Zappa armeggiante con il blues invece che con il kitsch o peggio ancora gli Holy Modal Rounders in versione blues-rock.
Il brano più spassoso è forse il blues supersonico di Sure Nuff'n Yes I Do, altra cadenza mozzafiato e altro canto sgolato (il riff è quello del traditional Rollin' And Tumblin').
Un altro brano apparentemente comico è in realtà uno degli esperimenti armonici più spericolati della carriera di Van Vliet: Electricity caracolla e gracchia la sua perversa filastrocca mentre due sgangherate e stridenti chitarre blues (Cooder e Alex St Clair) la dilaniano, mentre un theremin miagola languido e grottesco in sottofondo, mentre la sezione ritmica accenna una quadriglia zoppicante (il ritmo sincopato e mutante di French è un capolavoro dentro il capolavoro). Il brano è strutturato secondo un ordine soprannaturale, ma lascia l'impressione di una boutade caotica. Ciò che la Magic Band sgretola non è l'armonia, ma il concetto classico di canzone.
L'elemento comico è invece davvero l'epicentro degli ossessivi rhythm and blues di Dropout Bolgie (l'energia minacciosa di un riff sinistro e sincopato accoppiata a un ringhio demoniaco e a uno xilofono da vaudeville) e Zig Zag Wanderer, dove è più evidente la discendenza dagli shouter, sia pur con coro soul. Più fedeli ai canoni rimangono invece i vocalizzi doo-woop di I'm Glad e il sentimentalismo melodrammatico di Autumn Child, libere parafrasi del rhythm and blues commerciale, nonché i brani dove il blues del Delta è somministrato in dosi massicce, come in Plastic Factory e nelle sincopi azzannanti di Grown So Ugly.
Sono canzoni che rifanno il verso a stili e "portamenti" fra i più abusati. La grinta esecutiva si accoppia all'istrionismo vocale di Beefheart, capace di cambiare personalità da un brano all'altro, di caricatura in caricatura. Il trasformismo culmina nel tip-tap licantropo di Yellow Brick Road (con xilofono e ritornello da Broadway) e nel sabbah tropicale di Abba Zaba (con danza pellerossa, assolo jazz di basso e slide hawaiana).
In questo periodo il gruppo produce dunque grandi reperti di freak-music, ma è osteggiato dall'ottusità generale. Ben visto soltanto dai pochi radicali in circolazione, Beefheart si sente cactus solitario in un deserto di sabbie mobili. Ha alle calcagna il folk-rock dei Byrds e lo fronteggia il flower-power di San Francisco, mentre dilagano da costa a costa i complessini beat. Le sue tournee falliscono miseramente e i discografici tentennano.
La session registrata dal vivo a Los Angeles nel novembre 1967 (e non nell'agosto 1965 come sostengono le note di copertina) venne pubblicata, menomata, soltanto anni dopo sull'album Mirror Man (Buddha, 1971), prodotta dallo stesso Bob Krasnow che aveva prodotto Safe As Milk, e apparirà soltanto trent'anni dopo nella veste originale, sul postumo Mirror Man Sessions (Buddha, 1999).
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Le lunghe jam dell'album danno un'idea di come suonasse la Magic Band dal vivo.
La musica di queste jam è un blues regredito a uno stadio molto barbaro: da un lato il complesso suona in maniera puerile, indulgendo in stecche e contrappunti fuori tempo, dall'altro il cantante inveisce, sbava, impreca, e vomita con voce rauca, strozzata, rugginosa. In realtà il complesso rivoluzionava genialmente il concetto occidentale di armonia, e il cantante sfoggiava un registro capace di coprire sette ottave e mezza (qualunque cosa fra Otis Redding e Howling Wolf). Il blues diventava semplicemente un pretesto per attaccare i dogmi della musica commerciale: laddove la musica commerciale era un forbito e barocco castello di armonie e melodie, la Magic Band proponeva la musica più brada e selvaggia, eseguita nella maniera più naif. L'istinto primordiale faceva piazza pulita delle regole marketing. I ritornelli scemi dei Beatles venivano sepolti sotto granitiche montagne di accordi sgangherati, sotto giungle di strepiti liberi, sotto feroci uragani ritmici. [che palle sig. Scaruffi!!!! Non perdi occasione per ribadire che non ti piacciono i Beatles!!! Ebasta!!! n.d.rose]
Il disco pubblicato nel 1971 contiene quattro lunghi brani. I diciannove minuti di Tarotplane sono il manifesto del blues creativo di Beefheart. Nel gran bailamme delle chitarre e delle percussioni (e dello strumento a fiato "shenai", che Van Vliet suona in maniera atonale) prende corpo un'estetica del brutto che potrebbe preludere a una rivoluzionaria non-musica o anti-musica, se Beefheart non rifiutasse qualsiasi etichetta intellettuale, lontano anni-luce da qualsiasi forma di coscienza musicale storica o artistica. Il titolo parafrasa il Terraplane Blues di Robert Johnson, ma cita invece You're Gonna Need Somebody On Your Bond di Blind Willie Johnson e Wang Dang Doodle di Willie Dixon. Del brano esiste una versione live di mezz'ora.
Kandy Korn è una canzone devastata da un coro abominevole, che contiene i germi dell'umorismo comune a tutta la scuola freak; confessione in pratica di un'arte concepita esclusivamente come gioco. Così anche la fanta-satirica 25th Century Quaker, costruita di nuovo sulla struttura della canzone espansa e con una coda in sordina di free-blues pirotecnico.
I testi di questi brani, nelle succinte parti cantate, sono surreali e volutamente idioti, all'insegna dell'infantilismo e dello sballo lisergico, in funzione di un teatro musicale dell'assurdo.
Questa musica è la più fedele espressione della cultura freak, della sua emarginazione più che ribellione, della sua inesauribile creatività, del suo disgusto per l'accademico, della sua ferocia infantile, della sua visione dissacratoria del mondo.
Il finale di Mirror Man è costituito da quindici minuti di improvvisazione anarchica (una jam di free-jazz per quattro scalcagnati bluesmen di strada) in cui lo strumento che stupisce per gli spunti più geniali è la voce di Beefheart, il veleno, i fremiti, gli spasimi di un canto che ha coordinate fra le più impossibili dello spazio sonoro: la visceralità nera trasfusa nei vocalizzi di un demente con l'impeto di un epilettico. Una colonna sonora da film dell'orrore: striduli vampiri, ruggenti King Kong, appestati agonizzanti, sciamani deliranti, zombie invasati; una sfilata di mostri sibilanti, gracchianti, cinguettanti, miagolanti, grugnenti, raglianti. Tutto recitato dalla voce camaleontica di Beefheart, una voce cresciuta nel deserto, fatta di serpenti a sonagli, di avvoltoi, di cactus, di sciacalli, di cespugli spinosi, di colline brulle, e di sole torrido.
Blues creativo, naive blues, free blues, sono le etichette che vengono associate a questo sound, etichette che rimandano sempre al blues come struttura portante. Il blues come metodo secolare di violenza armonica nei confronti della società occidentale, il blues come momento di liberazione collettiva, come rituale di esaltazione, come mimesi della sofferenza più acuta (la schiavitù), come orgia senza fine. I freak scoprono i loro naturali antenati nei vagabondi del Delta che esorcizzavano con il canto la schiavitù dei loro fratelli: anche i freak cantano la schiavitù di un popolo (i teenager schiavizzati dai media) e vagabondano ai margini della società. Un tocco di boheme per aggiustare il tiro completa l'opera di appropriazione.
Per quanto riguarda i collaboratori, John French si comporta come un bambino che abbia appena scoperto la batteria e si diverta a batterci sopra in tutti i modi possibili senza un momento di pausa (ma anche con un eclettismo pressoché infinito, e un fine intuito jazz), e Alex St Clair procede imperterrito per conto proprio con la sua slide saltellante e contorta, ricordandosi solo di tanto in tanto di far parte di un complesso, e ingaggiando di quando in quando duelli infernali con la armonica polverosa e strozzata del leader. Il contributo di entrambi è decisivo per la riuscita del caos orrendo di Mirror Man.
Strictly Personal (Blue Thumb, 1968), registrato sei mesi dopo Mirror Man con Jeff Cotton ("Antennae Jimmy Semens") al posto di Ry Cooder, venne rovinato dagli effetti aggiunti in sede di mixing dal produttore (sempre Krasnow), che rendono inascoltabile gran parte del lavoro (Van Vliet ripudierà l'album).
Nonostante ciò l'album si spinge al di là di ogni esperimento precedente: gargarismi vocali e deliqui strumentali, cannibalismi ritmici, sono abusati fino a stravolgere del tutto il blues in clima di happening infernale. I musicisti compongono un mosaico allucinante di suoni, al limite della cacofonia premeditata (anche se in realtà ogni brano segue una linea ben precisa e non perde mai il controllo). Uno spesso velo di alterazioni e distorsioni, un rumor bianco steso sui solchi impedisce la fruizione delle gag musicali di Beefheart e compagni, anche se ne lascia intuire la portata. È l'ennesimo atto di sabotaggio discografico di cui sono vittime i complessi freak.
I brani sono comunque otto, di lunghezza media; roccioso e disperato, il disco si presenta come un'entità unica, senza punti di discontinuità. Nonostante la produzione ce la metta tutta per nascondere le sconcezze del suono, l'album rivela un numero impressionante di soluzioni d'avanguardia. Il jazz, e in particolare lo sperimentalismo free, è il vero ispiratore dell' opera.
I deliri vocali di Ah Feel Like Ahcid (su una base strumentale scarna e sonnolenta e echi di Death Letter di Son House) e di Trust Us (il cui climax viene raggiunto con un urlo a metà fra lo strillo di un muezzin, l'ululato di una strega valpurgica e l'acuto di un tenore d'opera, e con un finale tribale e demoniaco), e i ricami fantasiosi di Gimme Dat Harp Boy (laida arguzia folk per fil di voce spinoso, armonica putrefatta e ritmica ossessiva, con il riff di Spoonful di Willie Dixon), sanciscono quantomeno la statura di cantante di Beefheart, che non ha eguali nella storia del rock, del blues e del jazz.
Le baraonde strumentali di Safe As Milk (con finale dissonante di chitarra sostenuto da un galoppo di bacchette) e On Tomorrow[i], l'improvvisazione "acida" delle riprese di [i]Mirror Man e di Kandy Korn consacrano il disco come gigantesco organico mucchio di spazzatura che si trascina a fatica sputando dall'armonica e vomitando dalla chitarra.
Il personale omaggio al Merseybeat, Beatle Bone 'n' Smokin' Stones (con una parodia di Strawberry Fields Forever che irritò John Lennon), è una delle più potenti satire dei presunti dei dell'Olimpo rock, Beatles e Rolling Stones, oltre che sfogo personale dell'artista incompreso.
Il blues naive di Safe As Milk compie un grosso passo avanti e si trasforma in un Free Acid Blues, blues acido e libero all'interno del quale psichedelia e improvvisazione si complementano e giustificano a vicenda. La rotta è verso il caos assoluto.
A credere in Captain Beefheart è l'amico e rivale Frank Zappa, il quale, ben più smaliziato businessman gli fa da mecenate per il disco successivo, Trout Mask Replica. Beefheart vive con la Magic Band in una casa dilapidata e sopravvive grazie ai genitori. Il gruppo, irrobustito dal giovanissimo chitarrista Bill Harkleroad (in codice "Zoot Horn Rollo"), dal bassista Mark Boston (alias "Rockette Morton") e da Victor Hayden ("The Mascara Snake") al clarinetto basso, vive di fatto in isolamento. Van Vliet compone i brani, che French (personaggio fondamentale di quest'epoca) trascrive per complesso rock. A ciascun musicista viene lasciata ampia libertà di interpretazione. Van Vliet si è anche innamorato del clarinetto basso, che usa come un'armonica estesa. La gestazione del disco è lunga e laboriosa, ma si risolve in una session di otto ore, dalla quale Zappa e Van Vliet estraggono un doppio album, intitolato appunto Trout Mask Replica (Straight, 1969).
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Quel disco ha un'aura "art-rock" che gli album precedenti non avevano. La spontaneità antropofaga degli escrementi blues di Mirror Man si è trasformata in un conscio programma artistico (non meno spastico, peraltro). Lo humour di Safe As Milk viene abbandonato a favore di un umore eccentrico ma serio che ricorda le piece di Satie. I fumi luciferini di Strictly Personal si evolvono in armonie complesse e spigolose. Ne vien fuori uno dei dischi più creativi e coraggiosi di sempre, in anticipo di decenni sul resto della musica rock.
Per molti versi questo disco è l'equivalente della Fantasia nella carriera di Schumann. Adorno scrisse che quella Fantasia sembra il parto di un folle, ma in realtà è l'espressione del folle un secondo prima che la follia prenda il sopravvento.
La differenza più vistosa con i primi album è la durata dei brani, che sono per lo più brevissimi. Un'altra differenza superficiale è nella strumentazione, aumentata ai fiati.
L'opera è tanto complessa e innovativa da risultare indecifrabile. La sezione ritmica suona qualcosa di così poliritmico che non fa più da ritmo. Il canto spazia in universi alieni, vagamente interessata alla musica. La chitarra funge da controcanto atonale. Il contrappunto dell'ensemble è qualcosa a metà fra il caos orchestrale di Charles Ives e l'alea di John Cage. L'improvvisazione caotica ma razionale ricorda qualcosa della frenetica geometria di Ornette Coleman (che a sua volta ne sarà influenzato). I metri eterogeni che Van Vliet produceva stavano alla melodia come la poesia libera del Novecento sta alla rima. Ma il free-jazz e la musica d'avanguardia sono soltanto alibi, pretesti, per dar libero sfogo alle pulsioni anarchiche del leader. Il disco è di fatto un'antologia del caos in tutte le sue forme musicali. Per quanto profondamente diversi l'uno dall'altro, questi ventotto brani sono altrettante versioni della stessa scena di devastazione. Trout Mask Replica assomiglia soprattutto a un mosaico di dipinti astratti, ciascuno diverso dagli altri per colore, intensità, contrasto, ma tutti omogenei nella loro "astrazione".
Buona parte dei brani sono miniature di suono denso, scuro e crepitante, che vorrebbero rifondare il rhythm and blues bianco, ma sono in effetti deliri psicotici. Conservano un'ombra di melodia raccapricciante nel baccanale squilibrato degli strumenti, ma è come il rantolo di un moribondo che tenti di articolare una frase ma riesca soltanto a mettere insieme un farfuglio sconnesso: Ant Man Bee, Frownland, My Human Gets Me Blues, Sweet Sweet Bulbs. Il dadaismo di Beefheart è qui al culmine. I testi sono puri nonsense, schizzi astratti che servono soltanto a depistare l'ascoltatore.
Del blues grottesco di Safe As Milk è rimasto ben poco: la baldanza ritmica di Sugar 'n' Spikes.
L'influenza di Zappa si avverte negli intermezzi chiacchierati e nella musica per telefonata di The Blimp.
Nonostante la quantità di trovate surreali, l'umor medio è persino tragico: Beefheart non è più un freak mattacchione, ma una belva attanagliata da una angoscia senza limiti.
Fra i blues veri e propri svettano quelli senza accompagnamento, il delirio spettrale di The Dust Blows o il solenne assolo di Well. Dali`s Car spinge questo formato al limite di una musica da camera blues e gospel.
Il blues del Delta ispira soprattutto tre dei grandi capolavori del disco: la rissa convulsa fra cani rabbiosi di Pena, uno dei capolavori vocali di Van Vliet, qui seconda voce latrante; il grottesco Dachau Blues, dedicato a suo modo ai campi di concentramento nazisti (con un contrappunto repellente di clarinetto basso da far accapponare Eric Dolphy); e la lenta China Pig, a ritmo di respiro e con accompagnamento di sola chitarra, uno dei più grandi blues di tutti i tempi.
Nei brani in cui è più evidente l'influenza del free-jazz, e cioè quelli che privilegiano l'improvvisazione strumentale, si possono riconoscere tratti caratteristici della tenera disperazione dolphyiana, ma portata ad un livello deprimente di dilettantismo e pressapochismo: il litigio sconclusionato fra clarinetti di Hair Pie, il Neon Meate Dream Of A Octafish, perforato da drumming jazzato, clarinetti distorti e allucinazioni indiane, quel magma ribollente intitolato When Big Joan Sets Up. La jam più demenziale e assordante si trova comunque in Veterans Day Poppy.
Sovente il canto di Beefheart ha la funzione di voce poetante nella sua bizzarra cosmogonia, mentre un'improvvisazione chitarristica e un ritmo spigliato fungono da sottofondo primitivista. È il caso di Pachuco Cadaver, che incalza truce e spiritata a rotta di collo, e dell' esorcismo voodoo di Hobo Chang Ba, con tanto di sonagliere e canto mongoloide. Nello stesso stile "horror" si segnalano le più "dure" del lotto, assalti ritmici barbari e sagre dell'irrazionalità caustica del loro menestrello: Ella Guru (con vocioni di sottofondo, sincopi sgangherate, inni gutturali, danze pellerossa, cortocircuiti di steel e riff tremebondi di basso), e l'ascesso licantropo di Moonlight On Vermont, cupo e ossessivo incubo di mezzanotte con una raffica di sincopi devastanti e tamburi voodoo (la sua versione personale dell'Hard-rock). È il blues degli zombie, votato al sacrificio umano e ai rituali più occulti.
Trout Mask Replica è un monumentale esperimento di irregolarità ritmiche e un impressionante catalogo di acrobazie vocali. Raucedine, gargarismi, respiri, sottovoce, falsetto... tutto serve allo scopo di smantellare l'arte del canto e tramutarla in degradata emissione di versi bestiali. Per non parlare di quel barrito di clarinetto che fa capolino ovunque, secondo la tecnica guerrigliera dello "spara e scappa".
Il significato ultimo del pandemonio di Trout Mask Replica non è soltanto il gioco, o la negazione del significato. Sono molteplici i messaggi allegorici del capolavoro di Van Vliet, chiuso d' altronde in un massiccio involucro di astrazioni che ne consentirebbe perfino una interpretazione cosmico-metafisica, alla faccia delle pretese di analfabetismo dell'autore. Le interpretazioni tendono a ricondurre a qualche forma di apologia della pazzia, del primitivo e del caos, contrapposti all'ordine monolitico della società tecnocratica.
Beefheart prende a pretesto il blues del Delta, ma ne smembra la struttura: ritmo, armonia, tonalità, melodia; e poi riassembla i pezzi a casaccio, in maniera asincrona, iniettando free-jazz e improvvisazioni casuali. Beefheart è il primo musicista a compiere una operazione d'avanguardia di questa portata senza la minima pomposità intellettuale.
Van Vliet fa seguire quel capolavoro con un altro disco di eccezionale statura artistica, Lick My Decals Off (Straight, 1970), benché questa volta l'abbia composto in solitudine. In un certo senso è il suo lavoro più intellettuale, in quanto l'album si misura con i temi classici del blues (erotismo, libertà, treno, nostalgia) incorporati in un moderno senso dell'alienazione urbana. Fra i ranghi compare anche il percussionista "Ed Marimba" (al secolo Artie Tripp), che costituisce un formabile complemento di French, mentre scompare Cotton (andato a suonare nei MU di Merrell Fankhauser).
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Il suono è ancora frammentato in una miriade di miniature surreali, con grandi feste di clarinetti dolphy-ani (soprattutto Japan In A Dish-plan), di scordature convulse (Ballerin Plain), di comizi da strada (The Smithsonian Institute Blues), di assurdi assoli chitarristici (One Rose That I Mean). Il meglio del suo jazz-blues da camera si trova in I Love You Big Dummy, con splendidi scontri fra le piroette del clarinetto e i gargarismi del canto, e in Flash Gordon's Ape, un caos ributtante di anti-ritmi, di dissonanze fiatistiche e di declamazioni libere. Il lied surreale di Beefheart tocca uno dei suoi vertici in The Buggy Boogie Woogi, una grande meditazione in sordina. Spunti etnici fanno capolino da Peon, serenata messicana, e da Woe-is-uh-me-bop e Lick My Decals Off, entrambe con sapori caraibici.
Clarinetto e voce sono anche in questo disco gli strumenti preminenti e più innovativi. Rispetto al Trout Mask Replica c'è forse meno inventiva, meno freschezza e meno grinta. L'unica a rimetterci è però la voce, più contenuta nei suoi sproloqui. Le percussioni e la chitarra non hanno mai avuto tanto spazio e non sono mai state tanto in primo piano. Un eccesso di frenesia e di frammentazione nuoce alla fruizione, a riprova di quanto fosse contata la produzione di Zappa sul disco precedente.
Qui l'accento è più sulle liriche e sulla strumentazione. Se per quanto riguarda l'aspetto strumentale Beefheart prosegue i suoi esperimenti di arrangiamento cripto- blues- jazz, dal punto di vista dei testi cerca di proporre il suo universo naive e surreale come conseguenza della, e come alternativa alla, spersonalizzazione urbana. Il suo ego emerge cherubino dalle nuvole, redentore dall'alienazione del consumismo.
Il violento litigio del 1971 allontana del tutto i due geni di Los Angeles, con gran danno per il free blues di Beefheart.
Forse stanco dell'indifferenza del pubblico, forse influenzato da un complesso che era stanco di fare la fame, o forse semplicemente debilitato da tanti anni di creatività selvaggia, Captain Beefheart compie il primo passo falso con Spotlight Kid (Reprise, 1972). Quando l'industria cerca di farne una star: la musica La sua voce ha perso il piglio cattivo della sua negritudine e il free-blues graffiante della Magic Band si è tramutato in un morbido, asettico rhythm and blues.
Anche gli spunti geniali di regressione infantile, la libera improvvisazione zappiana chitarro-centrica di Alice In Blunderland o il blues strascicato di There Ain't No Santa Claus, soffrono di sonnolenza eccentrica, per non parlare delle progressioni seriose di I'm Gonna Boogarize You, del boogie ferroviario di Click Clack, dello shuffle al rallentatore di Spotlight Kid. L'album sarebbe un capolavoro per un bluesman che voglia rendere omaggio alle radici del genere, ma al cospetto dei dischi di Captain Beefheart fa tenerezza. Van Vliet è un provincialotto ingenuo che è stato calato di forza dentro un frac e catapultato sul palcoscenico dell'opera, ma, rimasto frastornato dalle luci della ribalta, è riuscito soltanto a canticchiare l'inno nazionale.
Clear Spot fa anche peggio, incorporando cori gospel e fiati soul, tentando di fondere hard-rock e Memphis soul. La Magic Band intanto incamera Ed Marimba (Artie Tripp, percussioni), Roy Estrada (Orejon, batteria) ed Elliot Ingber (Winged Eel Fingerling, chitarra), che provenivano dal gruppo di Frank Zappa, ma perde French.
Alla fine del 1973 Beefheart viene "catturato" e trasportato in Gran Bretagna, dove la belva suscita curiosità. I dischi del periodo britannico, Unconditionally Guaranteed (Mercury, 1974) e Moonbeams And Bluejeans (1974), si addicono a un'attempata fiera in cattività che riposa dietro le sbarre.
Fallito il tentativo di farne un'attrazione da baraccone, Beefheart viene rispedito nella madrepatria e si concede tre lunghi anni di inattività per riprendersi dello stordimento e della delusione. In questo periodo la sua attività si limita alla rappacificazione del 1975 con Zappa (Bongo Fury).
Intanto Bill Harkleroad e Artie Tripp formano i Mother Mallard, dei quali usciranno due album, poi riuniti su un CD, Mallard/ In A Different Climate (Caroline, 1994).
Per la solita incomprensione dei discografici, Bat Chain Puller (1976) non vide mai la luce ma parte del materiale comparve due anni dopo su Shiny Beast (Warner, 1978). Della Magic Band smantellata è rimasto soltanto John French e anche questo è un segno dell'eterna solitudine che attanaglia l'uomo. Alle tastiere c'è John Thomas, al trombone Bruce Fowler, alle marimba Artie Tripp, alle chitarre ci sono Moris Tepper e Denny Walley.
L'album, che vanta il sound più spettacolare della sua carriera, risolleva di parecchio le quotazioni dell'eroe solitario, perché anche quando il ruggito si affievolisce a entertainment di lusso (Candle Mambo) mantiene un suo decoro repellente, e quando dà libero sfogo alla sua spaventosa bruttezza vocale (Bat Chain Puller e Floppy Boat Stomp) recupera parecchio del vecchio naive blues. Si tratta più precisamente di un nonsense Blues disinnescato con cura, blues dell'assurdo che non si è ancora liberato di tutti i compromessi e vive un po' alla giornata, senza fornire precise indicazioni.
Il materiale originale di Bat Chain Puller comparirà soltanto 16 anni dopo su Dust Sucker (Milksafe, 2002).
Doc At Radar Station (Virgin, 1980), che vanta Eric Drew Feldman alle tastiere, non arriva a quei livelli ma si fregia comunque di materiale di prim'ordine, in parte riciclato dalle sessioni dell'album "perduto". Il problema è che Van Vliet, in uno dei suoi impulsi capricciosi e testardi, volle fare un disco che suonasse come i vecchi dischi dei bluesman, e cioè con la produzione più piatta possibile. Il che probabilmente dimezzò il fascino delle sue incursioni in quel mondo al confine fra blues, funk, jazz e avanguardia: il minuto scarso di Flavor Bud Living per sola chitarra, la recitazione free-form di Sue Egypt con riff di hard-rock in sottofondo, il kammerspiel Making Love To A Vampire With A Monkey On My Knee nella sua miglior tradizione licantropa, e soprattutto Brickbats, il cui sottofondo è una jam di free-jazz dissonante.
Doc segna il ritorno all'anarchia, al blues rocambolesco, ai riff strampalati, al canto sgolato, alle sceneggiate satiriche, ai racconti dell'orrore parodistici, ai ritmi criminali e alle schitarrate arbitrarie. Hot Head nel classico stile caracollante (e nell'ottava più acuta), Ashtray Heart nel più sincopato sarcasmo (e nell'ottava più rauca), Run Paint Run Run nel tono più goliardico (nell'ottava più ruggente), Sheriff Of Hong Kong con ferocia monolitica e marziale (nell'ottava più licantropa), Dirty Blue Gene nel caos primordiale (e nell'ottava più sgolata) sono gli aforismi più geniali.
Mancano ancora l'azzanno travolgente di Safe As Milk e il caos astratto di Trout Mask Replica, ma ora Captain sembra progettare una nuova forma di song, alla ricerca forse di un futuro come entertainer e chansonnier dell'assurdo. Hot Head e Sheriff soprattutto mettono in vetrina la sua arte di mutazioni vocali e di arrangiamenti primitivi.
Ice Cream For Crow (Virgin, 1982), con Gary Lucas alla chitarra, ripropone il suo Delta-blues dissonante e la sua litania di astratti nonsense, ma all'insegna di una malinconica introversione. Gli sconquassi di sax, il drumming fuori tempo, l'armonica agonizzante, il ruggito anfetaminico sembrano aver perso la voglia di esistere.
Le tre forme base sono ormai ben codificate: la ballata fuori tono (intrecci chitarristici a ritmo sobbalzante, miasmi vocali, armonica filibustiera, vedi Ice Cream For Crow e Past Sure Is Tense, i due gioielli dell'opera), la gag goliardica (la caraibica Witch Doctor Life e l'horror-blues The Host The Ghost), lo strumentale minimale e stralunato (Semi-multicoloured Caucasian e Evening Bell, per sola chitarra) e la recita su sfondo free-form (il cool-jazz di The Thousand And Tenth Days Of The Human Totem Pole, con uno dei più brutti assoli di sax soprano della storia della musica).
Magro e consunto, il sound precipita negli abissi di abiezione cool di Skeleton Makes Good (un soliloquio visionario della voce più arcaica a memoria d'uomo) e Cardboard Cutout Sundown, che sono davvero album di musica da camera. Su singolo apparirà Light Reflected Off The Oceans Of The Moon, rimasto escluso dall'album.
Il prosieguo è malinconico, con l'artista sempre meno motivato a continuare. Le ultime sessioni di registrazione (nel 1984) non vedranno mai la luce, e invano Lucas lo invoglierà a registrare un altro album.
Captain Beefheart scomparve per sempre, come una belva che la civiltà abbia ricacciato nella giungla.
Van Vliet abbandonò definitivamente la musica rock, visibilmente risentito dall'ambiente ipocrita che lo gestisce e dai meccanismi consumistici che la regolano, e si diede alla pittura. Già nel 1985 Van Vliet esponeva nelle più prestigiose gallerie di Soho. Ritiratosi nel deserto natio, pubblicò anche un libro di poesie e disegni. Da lì in poi vivrà (nella cittadina di Trinidad) dei proventi della sua attività di pittore.
Per ironia della sorte, proprio quando Van Vliet appende l'armonica al chiodo il mondo si accorge dei suoi dischi. L'influenza esercitata da Captain Beefheart sulla new wave e sul rock alternativo degli anni '80 è seconda soltanto a quella esercitata dai Velvet Underground.
Finalmente la critica si accorge anche che, naturalmente, il blues non c'entrava quasi nulla: Van Vliet è l'equivalente rock di Van Gogh, e dire che Captain Beefheart faceva blues è come dire che Van Gogh era un impressionista, un fatto tassonomico che non spiega nulla dei quadri di Van Gogh (tutt'al più spiega in quale sezione del museo sono esposti).


John French, dopo aver partecipato a due album con Fred Frith, Richard Thompson e Henry Kaiser, ha pubblicato in etaà avanzata un disco solista, O Solo Drumbo (Avant, 1998)
Zoot Horn Rollo released We Saw a Bozo Under the Sea (2001).
Alla fine del millennio, appare sempre più chiaro che Trout Mask Replica è l'unico disco di musica rock che valga la pena di ascoltare.


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